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La Sicilia ha sempre avuto un ruolo strategico nel quadro politico nazionale: in termini numerici (il numero di parlamentari eletti nell'isola ne fanno una delle regioni fondamentali per chi ambisce alla guida del governo nazionale) e di assetti di potere (è siciliana la mafia uno dei veri poteri forti italiani, traeva forza dai voti mafiosi e dalle tessere di Lima la corrente democristiana andreottiana, Forza Italia ha avuto in Sicilia una delle sue principali roccaforti con il 61 deputati a zero conquistati nel 2001 contro l'Ulivo e siciliano è il suo fondatore Dell'Utri). E' però anche vero che i risultati elettorali dell'isola si contraddistinguono sempre per una specifica peculiarità non automaticamente estendibile all'Italia intera trovandosi lì, ancora più accentuati rispetto alla media nazionale, una tradizione maggioritaria prettamente di destra se non addirittura reazionaria, l'influenza delle organizzazioni criminali e del voto di scambio, l'attitudine al disimpegno e al disincanto dei cittadini. Certo gli esiti di queste elezioni indicano delle linee di tendenza probabilmente valide, anche se non si sa appunto con quali numeri, per tutto il Paese: l'astensionismo e cioè il rifiuto della politica e dei politici nel loro complesso ma anche il sintomo di un Paese sfiduciato, tramortito, senza più speranze e senza più illusioni; l'ascesa del Movimento 5 Stelle primo partito in Sicilia e che oggi può aspirare a percentuali ancora più elevate a livello nazionale consolidandosi come l'unica, al momento, vera grande opposizione al montismo e allo sfascio partitocratico; la destra che in termini di voti espressi nel suo complesso, tra le varie liste in cui è frammentata, è ancora maggioranza; i partiti che sostengono Monti che ottengono tutti insieme (PD,UDC,PDL più le forze minori) circa il 40 per cento dei voti validi e cioè, tenendo conto dell'astensione, conquistano la fiducia grosso modo solo del 20 per cento dei cittadini siciliani.
In queste condizioni più che ridicolo è offensivo parlare di straordinaria vittoria e di rivoluzione, come hanno fatto Bersani e Crocetta, quando il Presidente regionale è stato eletto con poco più del 30 per cento dei voti validi (ribadisco: il 15 per cento circa dei siciliani), per di più grazie all'appoggio dell'UDC già di Cuffaro e Lombardo e al benestare del chiacchierato senatore piddino Vladimiro Crisafulli ed è comunque lontanissimo dall'avere una maggioranza nell'assemblea regionale (cosa che renderà necessario o nuove elezioni o ricercare il voto dei deputati della destra, di Lombardo e di Micciché). Le elezioni siciliane hanno anche detto che far decollare una sinistra radicale di opposizione è maledettamente duro soprattutto quando manca il traino di un leader carismatico in grado di dare visibilità ed un valore aggiunto a livello di consensi. La delusione è ancora più grande (avendo raggiunto poco più del sei per cento dei voti e non riuscendo a portare alcun rappresentante nel parlamento regionale) se si pensa che la coalizione della sinistra siciliana aveva tutti gli ingredienti che chi auspica la nascita di una proposta di opposizione radicale indica come utili e necessari: l'unità dei partiti 'alternativi' e il coinvolgimento di quel grande soggetto sociale che è la Fiom che ha espresso il candidato Presidente, la brava Giovanna Marano, dopo l'inopinato forfait di Claudio Fava per ragioni burocratiche. Ma sarebbe un errore trarre la conclusione che si tratta di un progetto inutile e necessariamente destinato al fallimento solo sulla base dei risultati siciliani. E' evidente che la strada per ricostituire la sinistra è lunga e difficile ma non va abbandonata. In ogni caso è necessario riflettere ancora una volta del perché il disagio sociale, la povertà, la disoccupazione non si trasformi in voto per la sinistra. Bisogna forse concludere che l'argomento del pauperismo, della rivendicazione dell'eguaglianza e della necessità di redistribuire ricchezza ai più poveri non ha oggi molto appeal, per ragioni sociali e culturali, per il predominio di quei valori – della ricchezza e del successo ad ogni costo, del possesso dei beni di consumo - che ci vengono bombardati da decenni dai media. Chi è troppo povero non ha forza e animo per impegnarsi politicamente e dare fiducia a chi si candida a rappresentarli, anche per l'insufficiente credibilità di costoro, e coloro che stanno nella scala sociale appena sopra si aggrappano a ciò che resta di un passato benessere e si affidano a quei partiti che promettono la difesa – ancorché minima, contraddittoria e truffaldina – dei diritti conquistati in passato o almeno la protezione della propria posizione individuale. Se non fosse così Marco Ferrando prenderebbe più voti di Beppe Grillo e non solo lo 0,2 per cento come in Sicilia. Le parole d'ordine di una sinistra vincente dovrebbero diventare la qualità della vita, l'ambiente, l'efficienza e l'economicità unita all'eccellenza dei servizi pubblici, il poter garantire a tutti le opportunità per poter realizzare i propri talenti e le proprie attitudini e cioè le condizioni essenziali per perseguire la felicità individuale. Rispetto a queste parole d'ordine la trasformazione dei rapporti sociali ed economici - nel senso della giustizia sociale, della liberazione dal bisogno, della collettivizzazione o del controllo pubblico ove necessario dei mezzi di produzione - assumerebbero il ruolo tattico di strumenti e di mezzi e non più e non solo di fini ultimi dell'agire politico. La lunga marcia della ricostruzione della sinistra e della realizzazione di un'alternativa politica passa poi sempre più dalla costruzione di un'alternativa economica fatta di forme di mutualismo e cooperativismo secondo la lezione di Pino Ferraris. E' solo così che si incontrano le persone offrendo loro alternative eticamente ineccepibili al voto di scambio e alla ricerca della protezione del mammasantissima di turno, che si promuove la partecipazione attiva e consapevole dei cittadini alla gestione della cosa comune, che si dà credibilità e concretezza alle proposte e alle iniziative politiche, che si trovano forme di selezione della classe dirigente non più fondate sulle capacità di eloquio e di affabulazione ma in cui diventa primo elemento di merito l'attitudine virtuosa all'organizzazione ed all'amministrazione dei beni collettivi.
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