E’ una crisi che si risolverà solo oltre duemila anni dopo, con il miracolo elisabettiano. Shakespeare, mettendosi sulle orme di Marlowe, ricompone i pezzi e crea un teatro capace di essere popolare e aulico, intrattenitore e intellettuale. Un aspetto che accomuna i tragici greci agli elisabettiani è la capacità di parlare per universali, rendendo i personaggi autonomi dal loro contesto e posizionandoli in un orizzonte atemporale.
Oltre a queste due, ci sono state nella storia altre epifanie parziali del teatro, rese tali da contestualizzazioni precise di ordine religioso, nazionale o sociale. E’ il caso della Sacra rappresentazione medioevale, la quale risponde a un’esigenza di catarsi collettiva (funzionale al potere religioso), ma in un luogo deputato altro, rispetto alla tradizione classica (la piazza o la chiesa in luogo del teatro). Con la Commedia dell’arte, il raggiungimento della trasversalità sociale avviene nel segno della dissacrazione e della fruizione ludica, scevra da pretese etiche. Ancora, il Siglo de oro, Moliere e Goldoni, coi quali si realizza un rispecchiamento, ma ad uso e consumo delle classi dirigenti, più che della collettività.
Una realizzazione più compiuta si ha col melodramma ottocentesco, particolarmente in Italia e in Germania, resa però parziale dalla forte connotazione nazionalista, privilegiata rispetto all’universalizzazione delle tematiche. Nel novecento si è andati verso la scissione tra l’aspetto mondano e quello sacrale. Episodi come il teatro di Beckett e Ionesco, di Kantor e Grotowski, pur raggiungendo mirabili equilibri tra sacralità e dissacrazione, sono stati relegati dalla cultura di massa, dominante e tirannica, agli ambienti ristretti della nicchia intellettuale.