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Le famiglie italiane ora possono fallire!

Creato il 14 marzo 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Donatella Porrini

fallimento
A fine 2012 il Governo Monti ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto del “fallimento del debitore”. Dunque, a partire dal 18 gennaio 2013, chi sia incapace di ripagare i propri debiti potrà seguire una procedura simile a quella prevista per le imprese insolventi.[1]

In genere, le parole “debiti” e “fallimento” non fanno pensare a qualcosa di positivo. Eppure, in questo caso, ci potrebbe essere un miglioramento per le famiglie italiane. Vediamo perché.

Dal punto di vista dei “debiti”, possiamo riferirci ai dati forniti dalla Banca d’Italia, secondo cui alla fine del 2011 l’indebitamento finanziario complessivo delle famiglie è stato pari al 65% del reddito disponibile, con un aumento rispetto all’anno precedente dei debiti contratti presso gli intermediari creditizi del 3,4%.[2] Da una parte l’Italia presenta una situazione migliore rispetto all’area euro (95%), ma, dall’altra, il dato è in crescita ed è destinato ad aumentare per effetto della crisi.

Al di là dell’aspetto meramente quantitativo, lo stato di indebitamento può dipendere da diversi fattori. Ci sono da un lato fattori esogeni, riconducibili sia all’andamento dell’economia in generale sia al verificarsi di eventi negativi che colpiscono direttamente la fonte di reddito della famiglia. D’altro lato ci sono fattori generati da una eccessiva quantità di consumi, facilitati dalla diffusione del credito al consumo.

Quando l’indebitamento porta ad uno stato di insolvenza, mentre le imprese vengono chiuse e cancellate, le persone fisiche continuano ad avere una vita che viene gravemente minata dai debiti che non possono essere ripagati. Il fallimento può allora essere una via d’uscita e l’Italia era rimasta fra i pochissimi paesi del mondo a non prevedere questo procedimento.

In pratica, il debitore “fallito” gode della esdebitazione o “fresh start”, si libera dei debiti non soddisfatti e può così reinserirsi nella società senza dover più fuggire dai propri creditori. Il tutto, ovviamente, a condizione che l’insolvenza sia incolpevole e che il debitore si comporti con correttezza.

L’introduzione del fallimento del debitore potrebbe avere un impatto sia sul mercato del credito, sia sulla società in generale.

Dal punto di vista dei creditori, se da un lato l’esdebitazione può comportare una rinuncia al recupero del credito, allo stesso tempo consente però di ottenere attraverso la procedura fallimentare una liquidazione delle somme dovute concordata con il debitore e gli altri creditori.

Per i debitori, d’altro canto, lo stato di insolvenza viene gestito in modo da consentire una liberazione dagli obblighi di pagamento che potrebbero bloccare la possibilità di riprendere un’attività lavorativa attraverso nuovi finanziamenti.

Accanto ai vantaggi che potrebbe apportare questa nuova procedura, occorre comunque ricordare che in molti paesi, come per esempio la Spagna, a causa della complessità della sua applicazione concreta, non se ne è avuta una ampia diffusione. Ed è inutile pensare che il fallimento possa risolvere tutti i problemi connessi al sovraindebitamento.

Sono dunque necessari altri interventi di politica economica.

In primo luogo deve essere promosso l’uso di strumenti all’interno della disciplina degli intermediari finanziari con effetto ex ante, come l’adozione di controlli sull’accesso e sulle condizioni di erogazione del credito, nonché lo sviluppo di Centrali di Rischi che consentano uno scambio di informazioni sulla storia creditizia dei richiedenti credito.

Ancora, si deve promuovere la diffusione della cosiddetta educazione finanziaria che porti le famiglie ad essere consapevoli della natura e delle caratteristiche delle forme di indebitamento e del loro peso rispetto al reddito percepito.

Infine, al di là del problema dell’insolvenza delle famiglie, occorre tenere presente che il fenomeno presenta complessi risvolti sociali ed economici e richiede interventi di politica economica, anche al fine di disincentivare il ricorso a circuiti criminosi e usurari.


[1] Legge 27 gennaio 2012, n. 3, come modificata dal decreto Sviluppo-bis (Dl 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221).

[2] Relazione Annuale del Governatore della Banca d’Italia, 2012, p. 166.


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