Emmanuel Carrère, La settimana bianca (Adelphi, 2014, traduzione di Maurizia Balmelli, € 16,00, pp. 139). Ci sono bambini che amano abbandonarsi a immaginazioni lugubri, spingere il pensiero più in là, verso il nero che si agita dentro e che è a loro sconosciuto, ma evocato dalle paure degli adulti. Come Nicolas, il protagonista de La settimana bianca, anch’io amavo leggere racconti orrendi, inoltrarmi negli abissi della violenza e del dolore, immaginare e, al tempo stesso, fuggire il pensiero. Forse era per scongiurarli, forse per dare un confine, una cintura di protezione che gli adulti ansiosi da cui ero circondata non riuscivano a mettere.
Nicolas ha una decina d’anni e sembra un ragazzino normale, anche se alla settimana bianca della scuola arriva accompagnato dal papà anziché in pullman con i compagni, ed è subito chiaro che è stato cresciuto in un ambiente iper protettivo e pieno di fantasmi: la paura del mondo esterno, l’angoscia per le tragedie che la cronaca agita come spettri, certe fantasie nere come il rapimento e il traffico di organi sono conseguenza di un ambiente familiare non sano.
Il racconto di Carrère procede in un climax ascendente di timore che si fa paura e poi certezza dell’orrore: è un noir delle fantasie infantili, e alla fine il mondo che Nicolas cerca con ossessione e terrore gli risponde, si rivela e presenta il suo volto reale. Qualcosa accade davvero, è cronaca ed è terribile. E il pensiero è che quelle fantasie di bambino siano lo strumento di cui certe indoli sono dotate fin dai primi anni di vita per imparare a misurarsi con il male.
Prima di dedicarsi alla narrazione di cronache di quotidiana violenza (L’avversario) e di consacrare alla letteratura personaggi reali e complessi (Limonov), ovvero prima di dedicarsi alla fiction-non fiction, Emmanuel Carrère ’scaldava i motori’ con questo romanzo, scritto nel 1995, edito prima da Einaudi e ora da Adelphi.
La settimana bianca dimostra già tutto il talento dell’autore francese, la sua capacità di calarsi nella psiche umana, in quel punto in cui ognuno è di fronte alla possibilità di scegliere chi essere. La sua capacità di ritrarre l’uomo nella sua complessità.
Non a caso, in una lectio tenuta di recente a Firenze, Emmanuel Carrère ha detto: «Mi piace la pittura di paesaggio, mi piacciono le nature morte, mi piace la pittura non figurativa, ma più di tutto mi piacciono i ritratti. Quando vado in un museo, la prima cosa che guardo sono i ritratti, e penso che se avessi fatto il pittore sarei senza dubbio un ritrattista. Del resto mi considero nel mio campo una specie di ritrattista».
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Scritto da: Francesca Magni
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