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LE FINESTRE IMPOSSIBILI | Un affaccio nell’opera di Carlo Bazzoni

Creato il 09 ottobre 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

carlo_bazzoni_finestre_impossibili (4)di Massimiliano Sardina

Poche cose ci inquietano come una finestra murata o come una tela rivolta verso il muro.

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Potremmo considerare la millenaria consuetudine architettonica di dotare le mura perimetrali di finestre come l’ovvia risposta all’ovvia domanda di aria e di luce, almeno sul piano più squisitamente pratico e strumentale. Allo stesso modo, l’opera d’arte appesa su parete ha ricoperto un ruolo altrettanto irrinunciabile per l’uomo, che attraverso questa finestra impossibile ha rimirato prospetti e sezioni del “naturale rappresentato”, sovente specchiandovisi e riconoscendovisi. L’analogia corre lungo i bordi delle rispettive quadrature, ma non si esaurisce sui margini, anzi proprio nel pieno del vuoto centrale trova nuove e più indubitabili similitudini. Come un panorama che si staglia al di là di una finestra, con la sua porzione di terra e di cielo, così i segni e le cromie che fanno capo a un’opera d’arte si dispiegano sulla trama della tela, suggerendo uno spazio in profondità. La finestra, per chi guarda dall’interno verso l’esterno, è un pulpito privilegiato che abbraccia una visione specifica, discriminante verso tutto ciò che è fuori campo. Alla stregua del suddetto pulpito, l’opera d’arte circoscrive categoricamente il soggetto (o il non-soggetto) rappresentato nel suo grembo bidimensionale, estraendosi ed estraniandosi dal contesto contingente.

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L’affinità più determinante, tuttavia, che lega questi due simulacri va ricercata nella loro stessa natura non oggettuale. A ben guardare, infatti, la finestra è un elemento architettonico mancante (la negazione stessa dell’occlusione e della muratura), così come l’opera d’arte tutto vuol essere fuorché un oggetto tout court (e cioè finalizzato e utilizzabile). Ingombri che si palesano unicamente in virtù della loro assenza. Poche cose ci inquietano come una finestra murata o come una tela rivolta verso il muro. Su un territorio così controverso, peraltro, si sono misurati chi in un modo chi in un altro, diversi artisti del passato, primo fra tutti ci piace ricordare René Magritte (col suo quadro nella finestra e con questa, a sua volta, nel quadro stesso), uno degli stregoni più autorevoli della cosiddetta tautologia. Anche da queste considerazioni, forse, muove la nuova fase creativa di Carlo Bazzoni che, contravvenendo a una delle più convenzionali leggi fisiche, apre un varco verso l’interno e spalanca i battenti sull’insondato recondito. Le finestre di Bazzoni sono impossibili per definizione, come impossibile è lo spazio dell’opera d’arte, delimitato ai bordi e illimitato al suo interno. L’artista dispiega intense campiture, giustapponendole secondo un equilibrio minimale, e sovrapponendo ad esse, in primo piano, un rifilo che rimanda tanto alla cornice di un dipinto quanto a quella di una finestra. A proiettare i colori sulla linea d’orizzonte, e a conferirgli una sognante ed intimistica profondità, interviene una sfocatura lieve e impalpabile, come le ovattate trasparenze di un’ipotetica tenda dall’ordito leggerissimo, che proprio schermando rivela. La superficie della tela diviene così un ricettacolo di velature, un territorio labile attraversato da delicate carezze cromatiche, un fondale magico che assorbe e riflette tutti i rivolgimenti impercettibili della luce.

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Nella pratica dell’astrazione operata da Bazzoni è possibile individuare un’intima ed impellente necessità di ricerca al di là dell’elemento riconoscibile, quasi che la realtà osservata non fosse altro che il riflesso di una dimensione ulteriore, un panorama imploso da cristallizzare mediante la stesura evanescente del colore. L’astrazione come scrittura dell’inconoscibile, come negazione di ogni finitezza, come possibilità di abiura dalla contingenza e dall’obbligo convenzionale ed istituzionale della rappresentazione; l’astrazione come autonomia configurativa, come terapia della visione, come rituale demiurgico…, ma anche come tradizione o citazione più o meno dichiarata della pratica stessa. E che Bazzoni si riallacci a precedenti illustri è fuor di dubbio, sebbene si tratti però di affinità meramente incidentali e non connotative. La sequenza di finestre impossibili si dispiega dunque all’insegna di una panoramica unica: la landa sterminata che l’artista cattura di volta in volta in singole porzioni, quasi dei fotogrammi, variando ora le tinte dominanti e ora i formati. Ogni finestra si spalanca su un orizzonte specifico, eludendo battenti e persiane, affacciandosi a picco su un esterno/interno impercorribile se non con l’ausilio di uno sguardo sognante e, a tratti, obnubilato. All’affaccio non corrisponde (come sarebbe razionalmente prevedibile) la specularità d’una porzione di paesaggio, la restituzione d’un qual si voglia panorama, poiché la visione è incamerata nell’affaccio stesso, cucita a quel davanzale che sempre scivola come in una prospettiva pregiottesca, per quanto lo sguardo si ostini a sporgersi e a sbirciare al di là dell’intelaiatura. La cosa guardata coincide prima con lo sguardo e poi con la patina tautologica dell’opera: non c’è che la finestra stessa, una defenestrazione iconica. «Tutti i quadri di Carlo Bazzoni – scrive Robertomaria Siena – si presentano come finestre aperte attraverso le quali possiamo tranquillamente scorgere la dialettica Finito-Infinito.». L’opera fa breccia nella muratura, vi si installa quasi incassandosi, ma senza esporsi, senza estroflettersi, adesiva al gesso dell’intonaco, come mimetizzata; si guardi in particolare la sequenza delle finestre Grigio Cemento (2004), dai toni così timidi e delicati che tendono quasi a scomparire sul biancore parietale. Per sua natura squisitamente strutturale, funzionale ed estetica la finestra si frappone fra interno ed esterno, fra microcosmo domestico e macrocosmo urbano, in quella terra di mezzo (verticale) che non sta né di qua e né di là, neutrale e rarefatta come una linea d’orizzonte; attraversata dal buio e dalla luce, inchiodata o spalancata, è al contempo un’occlusione o una via di fuga, la grata di una gelosia o un passaggio verso l’infinito. Le finestre bazzoniane segnalano una possibilità, ritagliano quadrature trasparenti nella pietra, dichiarano un’apertura, suggeriscono slanci, indicano luoghi lontani, e a tratti, come i vetri, riflettono i volti di chi vi si accosta.

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L’allestimento delle opere su parete potrà dar luogo alla visualizzazione di un ipotetico edificio, una costruzione traforata eretta con elementi architettonici che già abbiamo avuto modo di definire “mancanti”, un ingombro non-ingombro, un’evidenza che pur manifestandosi continuamente si nega, preferendo procedere per allusioni, suggerendo traiettorie senza però indicarle in via definitiva e consentendo così a chi osserva di spaziare in assoluta libertà. «L’apparente bidimensionalità della tela – scrive Gianni Franceschetti – dimostra che, per Bazzoni, essa non è solo un’espressione geometrica ma una pittura che possiede la vita, che la sfora con un pensiero che sconfina, un sentimento che denota creatività e partecipazione totale. (…) C’è genialità in quelle stesure ai cui limiti il variare delle tinte sottese indica stagioni che volgono, il maturare del tempo, il rincorrersi degli avvenimenti, l’incombere di nuove venture. Cieli aperti, orizzonti senza fine, vigore di idee, erompere di ope-rosità e impensate vicende incardinano le cimose e si riflettono sull’ordito.».

La sintesi innescata su volumi e cromie, che a tratti riecheggia talune ascendenze di Ad Reinhardt, Mark Rothko e Josef Albers, dà vita a una serie di miraggi interiori, tutti osservati dal di dentro. In essi predomina un’atmosfera sospesa e onirica, al tempo stesso astratta e concreta, come astratti e concreti sono i rivolgimenti interiori, i pensieri, i ricordi, le riflessioni. Abilmente stesi sulla superficie, i colori hanno inoltre il pregio di ammorbidire lo schema lineare, smussandone il rigore d’impostazione. Nella serie già citata dei Grigio Cemento (a mio avviso la più efficace dal punto di vista strettamente concettuale), i colori sembrano subire un annacquamento, un annebbiamento, una scoloritura, una sorta di abrasione, e questo si traduce in un’affascinante processo di smaterializzazione cromatica, in una sussurrata iconoclastia che ci riporta a certe estremizzazioni suprematiste anni Settanta. Bazzoni, bisogna rendergliene merito, ha saputo individuare una grammatica comune tra astrazione e figurazione, ponendo entrambe le ricerche su uno stesso piano

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formale: le opere-finestre mediano tra la rappresentazione del dato reale e la non-rappresentazione della mera suggestione materico-cromatica; la forza e l’efficacia di questi dipinti deriva quindi anche da questo dialogo fortunato, da questa doppia anima. In Bazzoni le esperienze di Albers, Reinhardt, Rothko e Malevic si sommano e si fondono a quelle di un Mondrian o di un Klee, in un continuo interscambio tra geometrie e stesure di campiture monocromatiche; ciò che ne consegue, in ultima analisi, è una pittura estremamente meditata, “filosofica” per usare un’espressione di Robertomaria Siena (tanto nell’assetto esteriore quanto in quello dei “contenuti”) e autenticamente perseguita.

Nelle maglie della ricerca attuale, Carlo Bazzoni intreccia coscienziosamente taluni espedienti tecnico-stilistici propri del suo nutrito repertorio artistico antecedente – sarà convenevole ricordare che l’artista bolognese (classe 1940) ha alle spalle un abbondante quarantennio di mostre personali (la prima, allestita presso la Galleria “L’Isola” di Firenze, nel lontano 1963) – sempre scandito da un dialogo particolare tra metafisica e astrazione; va inoltre menzionata, al fine di esaurire più compiutamente il parallelo con le fasi creative del passato, la quanto mai singolare “trattazione” del tema del paesaggio bazzoniano, via via affrontato con soluzioni insolite e stranianti quali la visione del dipinto da più punti di vista (mediante la rotazione del supporto) o l’impiego di curiose piccole campiture relazionate come tessere musive. Come nella produzione pittorica precedente, anche in questo recente gruppo di opere-finestre permane, inalterato, il sentore onirico-metafisico, sebbene qui stemperato nell’eterea impalpabilità della visione.

Massimiliano Sardina

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Cover Amedit n° 20 – Settembre 2014, “VE LO DO IO” by Iano

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