Film d’apertura, in concorso, alla 68ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale (il soggetto è la piece teatrale Farragut North, Beau Willimon), Le idi di marzo è, a parere di chi scrive, una pellicola esemplare, tanto a livello di scrittura che di regia, volte ad esaltare la coralità espressa nella recitazione dall’intero cast: entrambe sono opera (riguardo la prima insieme al citato Willimon e Grant Heslov) del “divo” George Clooney, qui alla sua prova più convincente come regista, anche considerando il pur ottimo Good Night, and Good Luck.
Ciò che mi ha colpito in particolare è la modalità di ripresa estremamente classica e raffinata (la mente va a Tutti gli uomini del Presidente, Alan J. Pakula, ’76), molto attenta a valorizzare ogni singolo personaggio e l’interpretazione offerta dagli attori, così da rendere gli spettatori attivamente partecipi alla delineazione in crescendo della trama sullo schermo, incentrata sulla progressiva “diseducazione sentimentale” del trentenne Stephen Myers (Ryan Gosling), addetto stampa nell’ambito della campagna elettorale del candidato democratico Mike Morris (Clooney) per le elezioni presidenziali americane, che, tra subdole manovre sottobanco, orchestrati complotti, complice anche la stampa, e gli immancabili intrighi a sfondo sessuale, il tutto alla consolante ombra riparatrice della Costituzione, sacrificherà la propria verginità idealista sugli altari del successo e del potere.
Più che il classico “teatrino della politica”, con “vizi privati e pubbliche virtù” a far da funzionale, amara e dolente, coreografia, ciò che risalta, senza alcuna enfasi retorica o narrativa, tra dialoghi taglienti e toni da tragedia shakespeariana, è la duplicità, la doppiezza della natura umana e i patti mefistofelici che si è disposti a firmare in sostituzione di ogni ideale o valore, ordendo una congiura in primo luogo contro se stessi: su questo sfondo si staglia la figura del protagonista, ottimamente resa da Gosling, come quella di ogni singolo interprete, in ruoli solo apparentemente secondari, dagli ambigui Philip Seymour Hoffman e Paul Giamatti, all’intensa Evan Rachel Wood, senza dimenticare Marisa Tomei e lo stesso Clooney, spesso defilato ma decisivo nel far risaltare l’istrionismo proprio del politico, volto a blandire ruffianamente le masse, più che convincerle della concreta attuazione del programma.
Nella suddetta linearità evidenziata dell’intera vicenda, dalla valenza ovviamente universale, il film riesce inoltre ad esprimere una circolarità esemplare nell’aprirsi, l’avvio delle danze, e nel chiudersi, a giochi già fatti, con una scena pressoché identica: un uomo, un microfono, un leggio o una sedia sul palco e il vuoto delle parole espresse dal candidato di turno ad infrangersi rumorosamente sul destino degli uomini.