Magazine

Le imprese e il tema ambientale: alcune domande a Fabio Iraldo

Creato il 08 gennaio 2013 da Greeno @greeno_com

Abbiamo incontrato Fabio Iraldo, professore associato di Environmental Management presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

fabio.iraldo

Professore, è ormai evidente che l’adozione di certificazioni e impronte ambientali porti enormi vantaggi alle imprese, in termini di competitività ed efficienza. Eppure la maggior parte delle imprese italiane considera questa possibilità più come una spesa che come un investimento. È un problema di cultura o di scarsa percezione del vantaggio reale?

Bisogna considerare che esistono alcuni fattori in grado di incidere profondamente sulle scelte strategiche delle imprese, primo fra tutti il mercato di riferimento.

Ci sono alcuni settori che si sono mossi molto prima degli altri nell’inviare degli stimoli chiari ai propri fornitori, come ad esempio il comparto chimico o della carta, nei quali anche le imprese inizialmente meno sensibili hanno dovuto ascoltare il mercato. In altri settori invece questi stimoli non si sono innestati, quindi tocca all’iniziativa dell’impresa stimolare il mercato, in cui gli stessi consumatori appaiono “dormienti”. È il caso, ad esempio, del settore cosmetico, in cui il consumatore è più sensibile ad altro tipo di leve, come il prezzo o la qualità del prodotto.

Un discorso a parte, per complessità e varietà, merita il settore alimentare in cui si riscontra una grande attenzione potenziale da parte dei consumatori (ancorché declinata su interessi marginalmente ambientali, come il bio o l’equosolidale), alla quale le aziende si sforzano di rispondere cercando i giusti strumenti in mezzo all’enorme varietà di marchi ed etichette ambientali, col risultato di doversi talvolta arrendere a non intervenire proprio per l’incapacità di orientarsi fra le varie possibilità.

Un altro fattore da considerare in generale è senz’altro la dimensione dell’impresa. Questa è una variabile fondamentale, dalla quale possono derivare o meno due fattori decisivi per ogni politica ambientale: la pianificazione strategica e la capacità di investimento in certificazioni ed etichettature ambientali.

Cosa si sta facendo, a livello nazionale, per incentivare l’adozione delle impronte ambientali?

Il Ministro Clini ha parlato di fiscalità verde come stimolo forte alle imprese. Credo sia senza dubbio la misura più efficace, soprattutto perché pensata a due livelli: da un lato come incentivo forte e percepibile per le imprese che adottano impronte ambientali, attraverso la defiscalizzazione degli investimenti sulle performance ambientali di processi e prodotti; dall’altro come disincentivo in forma di pressione fiscale sul consumo delle risorse (es. carbon tax).

Sulla carta, dunque, la strada è tracciata.

Abbastanza nettamente, direi. Questa volta più dal governo italiano e dalle Regioni che dalla Commissione Europea, che si è maggiormente occupata della standardizzazione delle metodologie. Mi sembra che il governo italiano per mano del Ministro Corrado Clini, da sempre molto sensibile all’argomento, stia dando una spinta decisiva all’utilizzo di questi strumenti volontari come discrimine per fornire incentivi forti alle imprese. E le Regioni italiane, d’altra parte, stanno imprimendo una forte accelerazione alle dinamiche competitive basate sulle “impronte ambientali”, ad esempio attraverso l’iniziativa del Protocollo QuAm sulla qualità ambientale dei prodotti del made in Italy.

Your Carbon Footprint Challenge

Le pubbliche amministrazioni, rispetto alle imprese private, appaiono meno propense ad investire nell’adozione di standard ambientali. Il Green Public Procurement, ad esempio, resta poco considerato. Qual è lo scenario?

L’amministrazione pubblica italiana si stava muovendo, fino a qualche anno fa, con una certa solerzia ed innovatività. È intervenuto, però, il tracollo del sistema pubblico cha ha comportato un drastico impoverimento delle risorse.Nelle condizioni attuali, anche solo pensare di dover spendere di più in un bando pubblico per approvvigionarsi di un servizio o di un prodotto cha hanno maggiore valenza ambientale alle pubbliche amministrazioni non è consentito. Il Public Procurement avrà senza dubbio una prospettiva di sviluppo, ma va prima risolta la questione dei vincoli alle risorse delle amministrazioni, che le obbliga al contingentamento del bilancio. In una situazione del genere è difficile fare delle valutazioni serene circa questa possibilità.

Torniamo alle imprese. Negli ultimi anni hanno intuito la necessità di comunicare al mercato il valore della sostenibilità. Questo ha generato, da un lato, pratiche virtuose (soprattutto quando abbinate a investimenti sui cicli di vita dei prodotti/servizi). Dall’altro ha suscitato la tendenza a trattare il tema ambientale ad ogni costo, col risultato di produrre comunicazioni inefficaci, se non addirittura scorrette. È realmente intenzionale la pratica del greenwashing o manifesta piuttosto un limite reale delle imprese a trattare strategicamente il tema ambientale?

Questa è una domanda molto corretta. Io sono convinto che molte aziende non abbiano la piena coscienza di correre un rischio quando decidono, in modo molto disinvolto, di sfruttare la leva ambientale senza sapere esattamente quello che dicono, a chi lo dicono, se è realmente rilevante, se è opportuno concentrare gli sforzi su un determinato aspetto (es. il ciclo di vita dei prodotti) piuttosto che farlo su altri aspetti maggiormente impattanti (distribuzione, trasporti etc.) e soprattutto senza avere dei dati comparativi e misurabili circa gli impatti ambientali. Non credo al greenwashing intenzionale. Esiste però una tendenza un po’ superficiale, da parte di molte aziende, a fare comunicazione senza essere pienamente consapevoli di quello che stanno facendo e dei rischi che corrono. A questo va aggiunta una considerazione: è difficile fare comunicazione ambientale efficace usando dei dati scientifici difficilmente comprensibili. Questo è uno dei “drammi” del green marketing, che porta molte aziende a voler evitare l’utilizzo del dato tecnico nella loro comunicazione, con la conseguenza di dare informazioni poco chiare o distorte.

 

greenwashing

A questo aggiungiamo l’evoluzione del consumatore verde.

Assolutamente. Oggi il consumatore è molto più maturo. Non in termini assoluti, perché il numero di consumatori realmente competenti – seppur crescente – è ancora ridotto, ma in termini relativi. Vale a dire che questa minoranza influisce in modo decisivo su tutte le altre fasce, attraverso strumenti di grande risonanza. Oggi il consumatore verde fa il blogger, ricorre al word of mouth, è opinion leader. Talvolta contesta direttamente persino le aziende. Ho la sensazione che alcune di esse non abbiamo perfettamente realizzato di trovarsi di fronte ad un consumatore molto cresciuto. Altrimenti capirebbero che qualsiasi campagna di green marketing va tarata sui consumatori eccellenti, proprio perché nel green marketing è più alto il rischio di essere contestati da questa fascia di consumatori piuttosto che quello di essere poco chiari con il resto.

Per concludere, Lei ha fiducia che il mercato in un futuro prossimo, se non già adesso, premierà le aziende realmente virtuose?

Sono sicuro che le aziende in grado di comunicare al mercato la loro virtù saranno certamente premiate. Il problema è riuscire a dimostrarlo. La partita si decide lì.

Fabio Iraldo è Professore Associato presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Ricopre anche il ruolo di Research Director presso IEFE (Institute for Environment and Energy Economics dell’Università Bocconi di Milano) ed è Coordinatore del comitato scientifico della Rete Cartesio. Nel 2007 ha fondato ERGO (Energie e Risorse per la Governance dell’Organizzazione).

Sito internet:  www.fabioiraldo.it


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog