I n un paese senza nome, all’improvviso, nessuno muore più: malati terminali, attuagenari pieni di acciacchi, vittime di incidenti e di omicidi continuano ad abitare il mondo dei vivi.
In un primo momento, questo fatto viene accolto dalla popolazione come una benedizione poichè la morte, la più terribile e ancestrale tra le paure umane, ha cessato di fare il suo lavoro ma, ben presto si rendono tutti conto che le cose così migliori in fondo non sono. Case di riposo, ospedali e agenzie di pompe funebri cominciano ad andare in crisi, le famiglie che si erano preparate a dare l’estremo saluto ai propri cari finiscono per vivere in uno stillicidio di dolore, il governo è spiazzato, tanto più che la stessa Regina Madre continua ad agonizzare in un letto senza che gli eredi possano prendere le redini del paese, la Chiesa perde tutta la sua influenza mancando uno dei pilastri (la paura della morte) su cui essa si fondava.
Mentre il paese si abitua a questa novità, la morte, che ha fattezze femminili, decide che organizzerà in maniera diversa il proprio lavoro ed avvisa la stampa della nuova gestione delle sue attività causando una situazione di maggiore imbarazzo.
Tutto bene finché l’ingegnoso meccanismo escogitato dalla morte non fa cilecca. E qui viene il bello.
Dopo Cecità, José Saramago ci trascina ancora una volta nel limbo delle emozioni umane di fronte ad una situazione angosciante facendoci chiedere cosa avremmo fatto al posto dei protagonisti delle sue storie. Lo scrittore portoghese tratta la surreale situazione verificatasi in questo paese immaginario con la solita dose di filosofia e ironia; l’assenza di personaggi centrali alla storia ci permette di soffermarci su quanto succede e di ragionare se sia il caso, poi, di temere così tanto la morte e desiderarne la scomparsa visto come la cosa sconvolge completamente un paese sia dal punto di vista morale e sociale che da quello amministrativo.
E poi c’è la morte, protagonista del romanzo, che agisce secondo canoni e categorie che non sono umane, che impiega un intero capitolo a spiegare il concetto di ubiquità e di scorrere del tempo.
La lettura di Le intermittenze della morte è un esercizio culturale non semplice. In primo luogo lo stile di Saramago è ostico finché non ci si è fatta l’abitudine; l’uso del tutto particolare della punteggiatura all’inizio fa perdere sfumature e toni alla narrazione per cui ci vuole davvero molta attenzione durante l’esercizio. A volte bisogna soffermarsi particolarmente su un passaggio per comprenderne il livello filosofico e magari provare a immedesimarsi nel soggetto della discussione; altre bisogna impegnarsi ad astrarsi dal particolare all’universale per considerare il concetto secondo da un punto di vista più ampio.
E poi c’è la morte, entità astratta che noi temiamo e amiamo allo stesso tempo, che ci angoscia e allo stesso tempo ci rende fiduciosi che, in un tempo molto lontano per i più fortunati, un giorno tutto finirà e il nostro destino non sarà legato a quello del pianeta che abitiamo. La morte di cui non riusciamo a capire il modus operandi, ragionando noi su categorie umane e quindi limitate; la morte che, in Saramago, si fa donna e cammina tra la gente consapevole del proprio ruolo ma non per questo contrita, ben convinta dei suoi mezzi e che quello che sta facendo, e che fa di solito, è il motivo per cui esiste.
Alla fine del romanzo rimane la sensazione di aver letto qualcosa di importante ma di non averlo capito bene: lo stesso finale lascia spiazzati sebbene i più smaliziati lo potrebbero intuire con qualche capitolo d’anticipo e non sto parlando di un finale aperto che si presta all’interpretazione individuale ma, di una specie di sentenza che si avvicina ineluttabile.
Esattamente come la morte.