Nato a Dudley nel 1973, si è laureato in Letteratura inglese e americana, ha lavorato in fabbrica, in un impianto di inscatolamento carni, in diversi pub, al mercato di Old Spitalfields e per la metropolitana di Londra, poi è diventato insegnante. Ha esordito con The Afterglow, tra i vincitori del premio Betty Trask 2004. Nell’agosto 2012 è uscito il suo ultimo romanzo, How I Killed Margaret Thatcher. Cartwright si dichiara onorato di appartenere alla grande famiglia del realismo sociale inglese – in compagnia di autori come Alan Sillitoe, David Storey e Roddy Doyle –, ma il suo tributo maggiore lo versa all’impulso documentaristico di James Ellroy e alle vertigini stilistiche di Don DeLillo.
Da The Afterglow a How I killed Margaret Thatcher, dove sta andando la tua scrittura?
È importante sottolineare che tutti e tre i romanzi sono ambientati nella stessa zona, perciò c’è una decisa impronta regionale. The Afterglow parla della perdita di un figlio, un bambino che viene investito da un camion. Ogni capitolo del libro racconta la storia dal punto di vista di un membro della famiglia e delle persone che in un modo o nell’altro le sono collegate. Rispetto agli altri due romanzi lo sfondo è utilizzato in modo diverso. Il bambino muore negli anni Ottanta e la storia è ambientata nei Novanta. Come negli altri romanzi c’è un guardare indietro e un rendersi conto di come certe condizioni socioeconomiche abbiano un impatto sulla vita degli individui. Naturalmente questo tema è presente anche in Heartland. In termini di evoluzione, Heartland si apre un po’ di più a temi sociali in senso ampio, al mondo, al conflitto tra culture. Il mio ultimo romanzo, How I killed Margaret Thatcher, è stilisticamente ancora diverso, nell’uso della prima persona, di una sola voce. Credo di aver finito per scriverlo così perché è venuto dopo Heartland, ma penso che la mia scrittura voglia tornare alla polifonia, alla molteplicità di punti di vista che ho praticato finora. Riguardo ai temi, poi, a soggetti come il paesaggio, l’impatto delle questioni sociali sulla vita degli individui e delle famiglie, e lo sport, ecco, mi piacerebbe scrivere di nuovo di calcio, anzi sono sicuro che il calcio tornerà nella mia scrittura. È da qualche mese che sto provando qualcosa di completamente diverso, una storia per bambini, ambientata nel passato, con uno stile abbastanza tradizionale, nonostante vi emergano alcuni dei temi sociali che mi stanno a cuore. Lungo tutta la loro carriera gli scrittori tornano sempre a quella manciata di metafore e idee che li ispirano.
Nel libro Heartland aleggia lo spettro di un’età dell’oro ormai passata per tutti.
Sì, è un’idea molto presente nella Black Country. L’economia industriale che sosteneva la regione è crollata all’improvviso all’inizio degli anni Ottanta. Nella gente c’è ancora un fortissimo senso di perdita di quell’identità. È accaduto ovunque nell’occidente industrializzato. Io sono cresciuto in un posto così, e ho voluto catturare una parte almeno di quello stato d’animo in cui si percepisce che la realtà è stata privata di senso, di struttura, di comunità. Una volta, sulle cartine, i giacimenti di carbone della Black Country, nel sud dello Staffordshire, erano indicati con un tratto nero, ma oggi per la maggior parte delle persone l’appellativo fa riferimento alla polvere nera, al fumo delle ciminiere che annerisce gli edifici anche se ormai non è più così.
Jim, il consigliere laburista, ha paura di vincere le elezioni e ha solo voglia di andarsene in pensione in Spagna.
Sì, Jim è il più “esemplare” dei miei personaggi. Vive in un’area in cui tradizionalmente i laburisti avevano una solida base elettorale che all’epoca del racconto iniziava a sgretolarsi. In Heatland siamo in pieno New Labour, con la rivoluzione di Tony Blair, e Jim si sente da un lato messo in panchina dal suo stesso partito, dall’altro sempre più lontano da ciò che succede per strada. Non ha più energie, idee. Per quanto riguarda gli avversari, il BNP ovvero la destra estrema, nella politica locale inglese ci sono sempre stati fenomeni simili, basti pensare alla metà degli anni Settanta, quando era il National Front a dare voce a quelle posizioni. Ho l’impressione che si tratti di un fenomeno ciclico, generazionale. Le ultime elezioni locali hanno visto il trionfo di un altro partito, lo UKIP, l’ennesima riproposizione della destra, stavolta circondata da un alone di rispettabilità. La percezione diffusa è che abbia una base middle class, e infatti è stato descritto come “il BNP in giacca e cravatta”. Oggi insomma la destra cavalca un sentimento antieuropeo e anti immigrazione, mentre nel 2002 faceva un discorso prevalentemente anti musulmano.
Cinderheath e Heartland. Cosa significano per te queste due parole?
Cinderheath non esiste nella realtà, nonostante sia composta di frammenti di toponimi reali. Nel nome stesso di Black Country, la regione in cui è ambientata la storia, c’è il contrasto tra industrializzazione estrema e ruralità, una dualità onnipresente che volevo catturare. È una regione in cui l’industria è arrivata molto presto ma non ha creato grandi città. Sono nati tanti piccoli centri urbani sparsi a macchia di leopardo, cuciti insieme a mo’ di patchwork, un po’ come le voci delle mie storie. Qui la geografia diventa qualcosa di interiore, non è più una metafora. In fondo, la geografia è destino. Per quanto riguarda il termine heartland, vorrei sottolineare che in inglese ha connotazioni decisamente politiche. Le Midlands, la regione dove sono nato e cresciuto, sono definite “heart of England” nel senso di centro industriale della nazione. Certo, in questa parola c’è anche il rimando al luogo del cuore, ai legami affettivi con un posto, ma non è la sola sfumatura.
Qui la recensione di Heartland.