di Michele Bonatti
Fresco vincitore del Premio Campiello Opera Prima e tra i dodici finalisti del premio Strega, il romanzo targato Fazi Cate, io sta facendo molto parlare di sé, attirando le attenzioni della stampa e dei lettori per la singolarità della sua ‘ingombrante’ protagonista e per la capacità con cui Matteo Cellini ha saputo tratteggiarla. Lo scorso 27 aprile il libro è stato presentato nella sala Volponi di Urbania (PU), paese natale dell’autore, a dialogare con Matteo c’era il nostro collaboratore Michele Bonatti. Ecco uno scorcio di quell’incontro.
Matteo, il tuo è un libro provinciale, fortemente legato al territorio dove vivi e lavori; quanto conta questa marginalità nel disagio che vive Caterina?
Beh, il romanzo è nato nella mia esperienza quotidiana, qui a Urbania, con le sue vie, le piazze, i bar, la provincia quindi; probabilmente se fossi nato in città sarebbe stato ambientato lì. Ma la collocazione è anche più intima: mentre scrivevo immaginavo casa mia, camera mia, le scale, un collocarsi naturale dei personaggi in quelle stanze. Il vero rifugio di Caterina, la sua provincia, è dentro se stessa. Lei è quel punto minuscolo lontanissimo da tutti coperto di ciccia, al buio, nell’oscuro dove solo lei può stare; quanto sia fallace e ridicolo questo rifugio è un percorso che si scopre con la lettura del romanzo.
Cate è un personaggio scomodo; intelligente e caustica, non è sempre facile empatizzare con lei. Ci immaginiamo una ragazza in cui riconoscere le nostre insicurezze e invece è la prima ad allontanarci stigmatizzando cinicamente tutti i luoghi comuni sull’obesità e sul disagio giovanile. Quando e come nasce la protagonista di questa storia?
I commenti che ho ricevuto vanno dal “Cate mi sta simpatica” al “La prenderei a schiaffoni”, credo sia legato a quanto ogni persona si ritrova in Caterina. Lei vive di dettagli, di voci sussurrate dagli altri, di paure che solo lei immagina, probabilmente per molti queste sono solo sciocchezze completamente trascurabili, perciò non si riescono a immedesimarsi in lei in maniera così capillare. Penso che per il lettore il rapporto con Cate possa essere una bussola per ritrovare ciò è stato da adolescente.
Cate non è una persona che io conosco o che ho osservato, dentro ci sono io e il suo disagio in qualche modo è il mio, non nelle sue forme o intensità, e probabilmente parlare di me sarebbe stato troppo doloroso, quindi la cosa più naturale era finire dall’altra parte: io sono maschio, prendo una femmina, io sono un ragazzo magro, prendo una ragazza grassa. Caterina è venuta da me, mi ha chiesto spazio, io gliel’ho dato. La sua carne si è trasformata in metafora, solitudine, in parole, da lì la sua vita si è popolata di famigliari che han cominciato a muoversi e si è creata una storia, per me è stato tutto estremamente naturale.
Molto importante per Caterina è la letteratura, tutto ciò che le succede va di pari passo con i personaggi dei libri di Pirandello, Tozzi e altri ancora. A portare la letteratura nella sua vita sono due personaggi, la professoressa e la nonna, ma una di loro, senza dire come, la “tradisce”. Questo tradimento svela forse che anche la letteratura è per Cate l’ennesima maschera, un’illusione dove rifugiarsi, come per una Madame Bovary o un Don Chisciotte?
I libri che costellano la narrazione sono parte del percorso di una quinta superiore, tra questi ho scelto quelli che facevano gioco alla tematica su come ci vediamo e come ci vedono gli altri. Il rapporto di Cate con la letteratura non è sereno, lei non sceglie nemmeno un libro, legge ciò che le viene imposto dalla prof. In più fagocita, legge velocissimo, ciò che le arriva non è la potenza liberatrice delle storie, usa la letteratura come un trampolino per qualcosa che sarà, un antipasto di quello che vivrà all’università. Si sente aristocratica, esclusiva leggendo. Il finale è aperto, c’è la vita poi, io mi auguro che dopo l’ultima pagina del romanzo, il libro successivo che avrà letto sarà stata lei a sceglierlo. Sarebbe già una vittoria.
Anche in questo rapporto difficile con la letteratura si rientra nei canoni del personaggio novecentesco, Cate potrebbe quasi essere un Vitangelo Moscarda o un Pietro Rosi. Ma mi ha colpito che nell’esergo ci sia una citazione di un gruppo degli anni ’90, i Pavement: “I was dressed for success, but success it never comes”; come se la parola ‘successo’ fosse la cifra di un cambiamento antropologico che abbiamo subito negli ultimi decenni. Il disagio di Caterina quindi è più figlio di questo tempo, della nostra generazione o è quello universale dell’uomo moderno?
Credo sia universale perché tutti siamo stati adolescenti, e quella citazione in due versi descrive l’adolescenza. Il successo è quello che tutti, quando ci affacciamo alle superiori, ci aspettiamo dagli altri come riconoscimento. Cate voleva quello, non aveva ancora fatto di sé un problema, solo che provando a entrare nel mondo degli altri si è accorta di quanto fosse esclusivo. A tanti capita di vedere non accolte le nostre “proposte”, ma lei non voleva essere solo una proposta, voleva essere un’alternativa seducente. Non c’è riuscita, ripetutamente. Quel fallimento l’ha portata a diagnosticare nell’obesità la colpa di tutto ciò non andasse in lei in rapporto con gli altri, per lei se sei obesa sei “uno zero che moltiplicato per qualsiasi numero dà sempre zero”. Così decide di voler vivere in letargo, o come un camaleonte, sognando la vita vera dell’università.
Mi ha colpito il valore delle cose, che sono spesso sostituzione e costruzione della realtà: “Gionata sta cercando di trasferirsi nelle sue cose. Arriverà a disabitare se stesso”. Penso a Di sera, un geranio di Pirandello, dove inversamente gli oggetti sono i primi a sfaldarsi nello sguardo di un uomo morente. Esemplificativa l’immagine degli elastici, che torna sempre; metafora perfetta della tensione nella vita di Caterina, così resistente e fragile allo stesso tempo.
Lo stesso rapporto Cate lo ha con il proprio corpo, presenza ineludibile che le induce un atteggiamento quasi da martire: la scena del compleanno a mo’ di processione piena di insulti la fa sembrare un Cristo deriso, come se quella festa fosse una prova iniziatica per arrivare nell’al di là della vera vita, quella dell’università.
Non credo di avere il punto di vista migliore per giudicare queste interpretazioni, perché io sono dentro il romanzo, e molte cose non le vedo… l’immagine di Cate derisa come Cristo va verso la croce è perfetta, ma non l’avevo minimamente pensata. Anche con le cose è lo stesso: Cate vede il proprio corpo come una cosa, lo vede come qualcosa di eterno, immobile, immutabile, qualcosa di cui non riesce a liberarsi. Ha degli oggetti che la difendono, non vuole mai essere colta di sorpresa, tutti i luoghi e gli spazi che dovrà vivere nell’immediato futuro deve sempre viverli prima da sé. Il rapporto che ha Caterina col proprio corpo può somigliare all’incipit di Rossomalpelo: “Rossomalpelo era un ragazzo cattivo perché aveva i capelli rossi”. E spesso anche noi, tenendo in mano un romanzo con una ragazza obesa pensiamo: “Sicuramente la protagonista soffre”. Questo legame tra obesità e sofferenza è lei a formarlo, ma non tutti la vedono allo stesso modo. Probabilmente anche io quando ho iniziato a scrivere avevo un punto di vista cristallizzato su questo legame, proprio come Cate. Anche oggi, a volte, quando incontro una persona obesa penso subito che soffra, ma poi mi chiedo: “E perché?”.
Il libro è scritto in prima persona, Cate si pone come una narratrice onnisciente, perché onnivora, mangia tutto, è ingombrante anche come carattere. Non lascia mai emergere gli altri personaggi, parla sempre sopra di loro, li oscura usando l’arma dell’intelligenza, della citazione colta. Con la sua acutezza anticipa tutti i possibili paragoni, impedisce alle altre persone di trovare metafore usandone continuamente. In risposta a chi ti ha criticato l’uso di queste metafore, la verbosità, si può dire che sia proprio qui la cifra del personaggio di Caterina, un suo meccanismo di difesa, e non un vezzo di scrittura?
È un punto importante. Noi abbiamo la visione del mondo solo dal suo punto di vista, lei si fa portatrice di una verità che sarà costretta a cambiare assieme al modo distorto di vedere gli altri. Cate è ubiqua, i suoi confini si espandono fino a dove noi riusciamo a immaginarla, e non viene mai descritta da me, siamo noi dentro di lei. Una signora mi ha detto: “Io ho dubitato persino che fosse grassa”, mi ha fatto riflettere, e se davvero non fosse grassa?, d’altronde è il suo punto di vista, arriva a modificare la realtà secondo quello che vede e vuole. Questo suo ragionare per gli altri, chiaramente lo fa anche su se stessa; l’uso continuo di metafore non credo sia ridondante, un surplus di un significato già dato, credo piuttosto che ogni metafora sveli qualcosa di lei. Ha questo radar che le serve per sopravvivere, appena c’è una situazione di “pericolo” lei anticipa il giudizio degli altri con un’immagine che vive su di sé, basta una discesa nel centro di Urbino per dare il via alle impietose similitudini nella sua testa: dalla palla di neve che travolge tutti allo strike del bowling. Questa operazione non è senza dolore, lei la soffre, ma immagina che il dolore a rate sia come un vaccino che la salva, ovviamente non è così, lei pensa lo sia ma in realtà è uno stillicidio che la porta pian piano a uccidersi… simbolicamente.
Dicevi che questi ragionamenti non vengono mai a galla nella scrittura, sono gli altri che con la loro lettura portano nuove interpretazioni. Mi ha colpito una frase che Caterina dice alla nonna, con cui legge Con gli occhi chiusi di Tozzi: “Nessuna sensazione del romanzo è giustificata in modo logico, anzi Tozzi scrive perché non riesce a spiegarsi la vita”. Ti ritrovi in questa frase?
Quella è una sensazione fortissima che mi aveva dato Tozzi leggendo Con gli occhi chiusi, mi ci ritrovo tanto, perché quel romanzo è una sottotraccia di Cate, io; ha una scrittura estremamente originale e una visione della vita così tragica, disperata, cieca e senza speranza che molti si stupiscono lo scrittore fosse credente, a tal punto è la sua disperazione quotidiana. Con gli occhi chiusi è la storia di Pietro Rosi, un ragazzo che per l’appunto vive con gli occhi chiusi, un’immagine che racconta benissimo Caterina: anche lei vive così, anche lei ha messo un muro tra sé e gli altri, loro non possono entrare e lei non può uscire. Il romanzo è un progressivo aprire gli occhi di Caterina ed è un percorso estremamente doloroso ma giusto che deve affrontare.
Quali argomenti vorresti affrontare in futuro? Senti l’adolescenza come tua tematica oppure ti piacerebbe affrontare altri aspetti e chiudere questa parentesi?
Non ho tematiche di riferimento, chiaramente mi piace molto la narrativa che parla di rapporti tra persone, non di genere. Cate, io è stato scritto tra il 2010 e il 2011, l’anno scorso ho scritto un’altra storia, è la storia del rapporto tra un adulto e un bambino, un racconto di formazione; però non so quale storia verrà a trovarmi e mi chiederà di essere raccontata, non so se sarà ancora sull’adolescenza o se non verrà più niente e me ne starò con le mani in mano, bisogna preventivare anche quello!
Qui la nostra recensione di Cate, io.