Dopo la recensione e la presentazione del libro L’uomo che manca (Lantana) concludiamo il nostro approfondimento con l’intervista a Giovanni Dozzini, scrittore perugino nato nel 1978, editor e giornalista, laureato in giurisprudenza. Ha esordito nel 2005 con il romanzo Il cinese della piazza del pino (Midgard Editore).
Intervista di Eleonora Rossi
Da dove nasce L’uomo che manca? Qual è la sua genesi, quale la scintilla iniziale?
La scena iniziale del romanzo ricalca una scena in cui mi sono realmente imbattuto qualche anno fa, da cronista. La dinamica – un muratore che cade da un’impalcatura e atterra su un palo, rimanendone trafitto – è la stessa, anche se cambiano la collocazione e altri particolari. Mentre ho cominciato a scriverla ho capito che dietro poteva esserci una storia complessa, mi sono dato del tempo e l’ho sviluppata.
Il tuo secondo romanzo si impernia su un episodio tragico: un incidente sul lavoro. Quello che affronti è un tema difficile e impegnativo. Come mai questa scelta? Avevi intenzione, all’inizio, di assumerti un impegno o di scrivere un romanzo di denuncia?
La definizione di romanzo impegnato ci sta, quella di romanzo di denuncia no. Per me la letteratura, come e più di ogni altra forma d’arte, è un atto di grande rilevanza sociale, e come scrittore non potrei evitare di occuparmi di ciò che nella società funziona peggio. Naturalmente questo non vuol dire che prima di scrivere un romanzo debba elaborare una tesi ben precisa da sostenere e sviluppare, naturalmente prima di tutto viene la forza narrativa e il valore letterario di ciò che scrivo – altrimenti scriverei saggi, o reportage. Lo stesso L’uomo che manca non è semplicemente «un romanzo sugli incidenti sul lavoro»: la vicenda di Altim Popi è il pretesto per indagare personaggi, rapporti, dinamiche sociali. Quello che si dovrebbe presumere di trovare in ogni buon romanzo, insomma.
Un tema difficile, dicevo, perché spesso – anche alla luce di come vengono trattati gli incidenti sul lavoro e le morti bianche dalla cronaca – chi se ne occupa rischia di sfociare nella retorica. Tu, invece, a mio parere, eviti di fare questo errore concentrandoti sui tuoi personaggi e sulla complessità del reale che è alla base di tutte le storie, soprattutto le più tragiche. Come hai trovato questa chiave?
Non saprei dirlo, esattamente. La mia intenzione era quella di raccontare una storia, di costruire personaggi plausibili e significativi, di evitare i cliché e di complicare il più possibile la vita al lettore. Perché nulla è scontato, in nessuna storia umana. Detto ciò, ho cercato di evitare la tentazione di dare connotazioni militanti ai personaggi stessi – ognuno ha le proprie, più o meno pronunciate, contraddizioni – e ai loro rapporti. Da scrittore, ho voluto mettere a disposizione del lettore tutta una serie di elementi. Poi sta a lui farsi un’idea precisa di come stanno le cose.
Al centro del romanzo c’è la vicenda di Altim, operaio albanese di una ditta edile che si ritrova in un letto d’ospedale dopo essere precipitato da un’impalcatura mobile nel cantiere in cui stava lavorando. Attorno a lui, alla sua vita, gravitano diversi personaggi: la moglie Jonilda, il figlio Igli, la giovane dottoressa Marta, il giovane avvocato De Falco e poi l’Uomo che manca. Dove li hai incontrati, questi personaggi? Sei stato ispirato da persone reali, oppure sono i figli di una tua creazione letteraria?
In ogni personaggio c’è qualcosa di qualche donna e qualche uomo che ho avuto modo di conoscere nella mia vita, e poi naturalmente c’è il frutto della mia immaginazione. Potrei dire da dove viene l’integrità di Marta Dragone e da dove viene l’occhio velato di Jonilda Popi, potrei spiegare da dove vengono l’ansia di Alessandro De Falco e l’arrivismo di Marcella Cozzolino, ma non aggiungerei niente al romanzo.
A chi di loro ti senti più legato?
Difficile da dire. Ma il più simpatico, per me, resta il piccolo Igli. È un bambino, è sveglio, è più spaesato che spaventato, e sta cominciando a ragionare sul concetto di identità – lui, figlio di albanesi nato in Italia che non potrà essere italiano finché non avrà compiuto diciotto anni. Tra l’altro, proprio poiché si tratta di un bambino, è stato il personaggio più impegnativo da raccontare – com’era, più o meno, la mia mente quasi trent’anni fa?
Leggendo il tuo libro mi sono fatta l’idea che sia una sorta di romanzo corale in cui il narratore assume via via il punto di vista e la voce dei diversi personaggi. Ad alternarsi a questo coro c’è la voce solista dell’Uomo che manca. I suoi brani sono più lirici e distaccati rispetto alla narrazione (anche visivamente, poiché sono trattati in corsivo). Ci puoi chiarire il perché di questa collocazione così «a margine»?
Qualche tempo fa, dopo una mia recensione al loro romanzo Altai, i Wu Ming misero in allerta i lettori del mio giornale: bel pezzo, dissero, ma attenti agli spoiler. Insomma, spiegare quella voce forse sarebbe spiegare troppo.
A mio parere Alessandro De Falco – il giovane e ambizioso avvocato difensore della ditta edile per cui Altim lavora – può essere considerato il vero protagonista del tuo libro: è l’individuo più complesso e contraddittorio. È quello che, nel bene o nel male, e seppur condannabile per le scelte, è più vicino ad un (anti)eroe contemporaneo: compie un percorso parabolico, mentre tutti gli altri sembrano come cristallizzati nella propria dimensione. È così anche per te?
Decisamente. De Falco è un essere umano, debole e presuntuoso e spaventato come tutti gli esseri umani. Il suo percorso è – beh, hai ragione – parabolico, e accidentato, e un po’ schizofrenico. De Falco rimugina, vive fino in fondo le sue contraddizioni, e alla fine della storia è un uomo completamente diverso da quello che era all’inizio. Gli altri personaggi, a ben vedere, si muovono di meno.
A fare da sfondo alla tua storia e alle vicende dei tuoi personaggi c’è Perugia e la sua provincia: il centro storico cittadino, l’immediata periferia, i paesi limitrofi. Perugia è la città in cui vivi, in cui lavori e allo stesso tempo risulta una perfetta metafora della provincia italiana. Perché questa scelta? È solo perché è un posto che conosci bene, oppure perché si presta ad essere un suggestivo luogo letterario?
L’una e l’altra cosa. Perugia e l’Umbria sono i luoghi che conosco meglio, e allo stesso tempo sono molto attratto dalle piccole cose che succedono nei piccoli posti. La provincia italiana tende a interessarmi più delle metropoli, forse perché le metropoli ce le hanno già raccontate in tutti i modi. E poi almeno l’80% degli italiani vive in paesi o città con meno di mezzo milione di abitanti.
Oltre ad essere un autore sei anche giornalista e ti occupi di letteratura sulle pagine culturali di Europa. Mi piacerebbe sapere da te come giudichi lo stato della letteratura italiana contemporanea. Ci sono degli autori italiani che puoi consigliarci?
Domanda infida. Non è facile dipingere un quadro che metta insieme tutti. In generale, credo che chi fa narrativa, in Italia, tenda a specchiarsi troppo in se stesso. Soprattutto gli under 40. Allo stesso tempo, come si fa ad avere un polso della situazione esaustivo? Io recensisco molti stranieri, e anche se mi occupassi esclusivamente di italiani potrei star dietro solo a una piccola parte di loro. Comunque, certo, ci sono bravi autori. Non faccio nomi, ma consiglio un paio di titoli recenti: Città distrutte di Davide Orecchio e La generazione di Simone Lenzi.
In un recente articolo uscito sulla Lettura del 9 settembre Chiara Valerio parla di una «catastrofe narrativa» che affliggerebbe la letteratura italiana contemporanea. Riassumendo molto, per Valerio, tra le varie cause di questa catastrofe, ci sarebbe il clima istaurato dal ventennio berlusconiano: «La nostra catastrofe è perciò un tempo privo di spessore nel quale è impossibile edificare l’opera». Tu che cosa ne pensi?
Difficile, difficile. Un po’ vale quanto detto prima: c’è molta autoreferenzialità, poca attenzione alla lingua e alle architetture narrative. Colpa di Berlusconi? Non lo so. Di sicuro il cataclisma culturale in cui abbiamo vissuto nel suo ventennio lo pagheremo a lungo, e non solo in letteratura. Anzi, il che è più grave, soprattutto altrove. Io credo che in tempi del genere, quando i media faticano terribilmente a fare bene il proprio lavoro, spetti agli scrittori raccontare come stanno le cose. E ai registi, ai musicisti, ai comici. Se mi chiedi quanti siano gli scrittori che si sono presi questa responsabilità, ultimamente, allora non ho dubbi: molto pochi. Molto più semplice scrivere di paranoie, sesso e ossessioni varie. Chi c’ha provato e continua a provarci sono soprattutto gli autori di noir. Carlotto e compagnia, insomma.
Che libri ti piacciono di solito? Quali sono gli autori che preferisci leggere? Cosa, invece ti fa chiudere un libro prima della fine?
Altro terreno insidioso. Da quando leggo per lavoro, mi capita molto spesso di chiudere un libro prima della fine. Anzi, di solito molto, molto prima della fine. Do una possibilità solo ai libri ben scritti: se lo stile è sciatto, o banale, o caricaturale, o troppo “corsodiscritturacreativizzato”, lascio perdere. Poi – nel senso che è possibile rilevarli e ragionarci su solo dopo – viene la storia, la struttura, vengono le idee, i riferimenti più o meno dichiarati. La letteratura è questa, d’altronde. Quanto al solito giochino dei nomi, che ovviamente mi diverte: Philip Roth ha sempre perlomeno qualcosa di buono da dirmi, Ian McEwan ha un talento enorme così come Cormac McCarthy, Javier Cercas è un narratore e un intellettuale formidabile. E poi, tra i viventi, Toni Morrison, Norman Manea, David Peace, Enrique Vila-Matas. E, beh, Gabriel Garcia Márquez, il mio eroe da sempre.
Cosa ha significato e cosa significa essere pubblicato da una piccola e giovane casa editrice romana come Lantana?
Ogni editore fa storia a sé, piccolo o grande che sia. In generale credo che i piccoli riescano ad avere più cura dei propri libri, a dispetto della minore forza promozionale, distributiva e commerciale. Lantana è un paradigma, in questo senso: il direttore editoriale Alessandra Gambetti ha grande esperienza e grande intuito. Senza i suoi preziosi consigli – mai, mai tradottisi in condizioni o sconfinamenti di sorta – L’uomo che manca sarebbe stato un romanzo peggiore. Poi, certo, la vita di un titolo del genere in libreria o sulla stampa è a dir poco ardua. I librai, specie quelli di catena, ti sostituiscono alla velocità della luce, e la critica letteraria è più attenta ai pedigree di autori ed editori che alla qualità dei libri. Andate a vedere chi è che pubblica i saggi o i romanzi di Tizio, e poi andate a vedere chi è che pubblica i libri che Tizio recensisce. Se Tizio recensisce un libro di Caio, state sicuri che un mese prima Caio avrà recensito un libro di Tizio. Ma la rete può darci una mano, a tutti. Servirà solo un po’ di tempo per assestarsi, per individuare un sistema di filtri credibile e autorevole: il rischio di internet è proprio quello di pagare la iper-diffusione delle opinioni, il difficile è capire a chi poter dar retta, di chi potersi fidare, chi quest’autorevolezza ce l’ha e chi non ce l’ha.
Quali sono i tuoi progetti futuri? Stai scrivendo cose nuove?
Sto sempre scrivendo cose nuove, da quasi vent’anni a questa parte. Resta da capire, come sempre, che ne sarà di loro.
Dozzini, a chi andrà il Nobel per Letteratura?
Già, è quasi ottobre! Spererei Roth, davvero. Ma i rumors, a quanto pare, gli mettono davanti Haruki Murakami e Bob Dylan. Che peraltro ha appena tirato fuori, a settant’anni e passa, un altro gran disco, e che il Nobel se lo meriterebbe tutto. Comunque, detto tra noi, il Nobel serve più che altro a noi giornalisti e ai lettori pigri che si lasciano volentieri guidare da una fascetta più rossa delle altre. Soldi a parte, certo. Ma uno scrittore mica scrive per soldi. Giusto?