Le linee d’influenza turca sulla penisola balcanica

Creato il 16 febbraio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
La nuova realtà geopolitica sulla scena mondiale

Il primo decennio del ventunesimo secolo è stato il periodo più dinamico dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ad oggi: sono accaduti molti cambiamenti a livello globale in un lasso di tempo relativamente breve. Non è esagerato ribadire che il nuovo secolo ed il nuovo millennio sono iniziati l’11 settembre del 2001, da quando il ruolo degli Stati Uniti negli affari mondiali ha subito gravi danni a causa sia degli attacchi terroristici che hanno colpito due dei suoi simboli, sia dall’avvento sulla scena mondiale di nuove potenze economiche e politiche che hanno messo in discussione lo status quo negli affari politici globali. Queste nuove potenze politico-economiche chiamate con l’acronimo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) tendenzialmente ricche di risorse naturali, che in ragione della loro economia, in forte crescita, rivendicano un ruolo ed un peso maggiore nel contesto geopolitico mondiale.

Tenuto conto dell’attuale dinamicità e rapida mutazione degli scenari globali, gli autori dell’acronimo BRIC sono subito corsi a coniarne un altro, individuando le presunte ulteriori economie emergenti che seguiranno al gruppo del BRIC. Cosi è nato il termine MIKT /Messico, Indonesia, Corea del Sud e Turchia, economie emergenti queste ultime, con un potenziale inferiore di crescita rispetto ai paesi del BRIC ma, di contro, con un’importanza regionale crescente, dovuta alle risorse e soprattutto al potenziale umano che esse posseggono. Certamente, come nel caso del BRIC, lo sviluppo economico dei Paesi MIKT suggerisce che essi cercheranno di ottenere parimenti un ruolo centrale nell’economia planetaria ma anche un rilevante ruolo in ambito politico.

La Turchia nel XXI Secolo

Dato che la Turchia secondo gli analisti politici fa unanimemente parte della seconda ondata di potenze geopolitiche, con il presente articolo mi occuperò di lumeggiare meglio le nuove aspirazioni della politica turca. L’attuale crisi economico-finanziaria che ha colpito l’Unione Europea, il partner commerciale più importante della Turchia, non ha consentito all’Europa di “attenzionare” seriamente la nuova “Cina dell’Europa”. La Turchia fa parte del G-20, il gruppo delle economie mondiali più sviluppate, ha un livello di crescita del PIL invidiabile e da poco tempo ha lanciato il progetto “Visione 2023”, in occasione del centesimo anniversario dalla nascita della repubblica turca. “Visione 2023” include delle strategie e obiettivi da implementare e raggiungere, in ogni sfera della vita pubblica ed economica del Paese, entro il 2023. L’eccellente sviluppo economico e la stabilità politica, conseguente alla salita al potere del partito AKP, hanno portato a un cambiamento significativo nella politica estera turca.

Le nuove dimensioni della ambiziosa politica estera turca sono strettamente legate all’ascesa al potere del partito islamico moderato AKP, che appena un anno fa ha trionfato alle elezioni politiche nazionali per il terzo mandato consecutivo. In tale contesto, merita di essere menzionata anche la figura influente di Ahmet Davutoglu, ministro degli Affari Esteri, già consigliere del primo ministro Erdogan. Per meglio delineare le nuove tendenze della politica estera turca, è sufficiente aver riguardo ai discorsi pronunciati dai suoi leader politici. Dopo aver vinto le elezioni politiche interne per la terza volta consecutiva nel 2011, il primo ministro Erdogan ha iniziato il suo discorso politico d’insediamento con le parole: “Fratelli di Bagdad, Damasco, Beirut, Amman, Cairo, Sarajevo, Baku e Nicosia, oggi il Medio Oriente, il Caucaso e i Balcani hanno vinto quanto la Turchia”.

Dato che anche i misconoscenti di questioni politiche sanno che i discorsi dei leader sono oggetto di anteriore approfondita pianificazione, non può sfuggire ai lettori come il discorso di Erdogan non era il frutto di uno sfogo emotivo, ed è stato piuttosto un allineamento preciso delle nuove ambizioni di Ankara, che possono essere distinte in tre principali direzioni, secondo le aree territoriali cui sono rivolte: la prima regione di interesse strategico per la Turchia è il Caucaso unitamente ad alcune aree dell’Asia centrale, la seconda è il Medio Oriente e la terza è rappresentata dalla penisola balcanica. Nel costante perseguimento della politica di estendere la propria influenza, Ankara conta soprattutto sull’Islam: religione che accomuna la maggioranza delle etnie balcaniche, mediorientali e dell’Asia centrale. Un fattore non trascurabile è appunto quello che tutte le Nazioni che Erdogan ha menzionato nel suo discorso di insediamento come “fratelli” sono prevalentemente di religione musulmana. Molti report ed analisi sono stati scritti sui rapporti tra la Turchia ed il Medio Oriente, sulla nuova politica diplomatica turca e, soprattutto, negli ultimi tempi, sulle relazioni con la Siria, l’Iran ed Israele. Perciò, il presente articolo, si concentrerà sulla politica turca verso i Balcani – una regione che da sempre è stata considerata una priorità politica per Ankara.

La Turchia ed i Balcani

La penisola balcanica con la sua strategica posizione geografica di crocevia è sempre stata un punto di contatto tra l’Europa Occidentale e l’Est. Infatti, seppur geograficamente essa ha sempre fatto parte dell’Europa, fino alla fine del diciannovesimo secolo una gran parte della penisola apparteneva all’Impero Ottomano, una situazione politica che ha avuto un fortissimo impatto sullo sviluppo dei Paesi della regione. Nonostante le realtà geopolitiche siano considerevolmente cambiate durante il ventesimo secolo, vista la scomparsa dell’Impero Ottomano e l’avvento delle Nazioni balcaniche quali Stati indipendenti, la giovane repubblica turca non ha mai smesso di interessarsi dei suoi ex territori. E, nonostante nel corso della Guerra Fredda le realtà geopolitiche erano completamente differenti da quelle odierne, focalizzate soprattutto nella divisione tra l’Est e l’Ovest, quando la Turchia non aveva né le possibilità né le risorse per implementare fattivamente una politica estera più attiva verso i Balcani, pur tuttavia essa non ha mai smesso di coltivare forti interessi nell’area balcanica.

In primo luogo, perché la penisola è, sia in senso politico che geografico, la sua “porta d’accesso per l’Europa”. In secondo luogo, perché la dominazione ottomana ha lasciato delle tracce culturali, etniche e storiche che favoriscono la Turchia nelle relazioni con i Paesi della penisola balcanica. Tra di esse, la carta più forte che Ankara può giocare in questo contesto geopolitico è la religione comune tra la Turchia e molte etnie balcaniche: l’Islam.

Bosnia ed Erzegovina

Andando adesso ad analizzare nel dettaglio i Paesi balcanici ove Ankara cerca di affermare la sua influenza politico-economica, iniziamo con la Bosnia ed Erzegovina (BiH), una delle roccaforti dell’Impero Ottomano durante i cinque secoli della suo dominio nella penisola. Per la posizione geografica che la Bosnia ed Erzegovina occupava in prossimità alla miscredente Europa Occidentale, era di importanza vitale per l’Impero Ottomano avere un controllo assoluto, esercitato anche e soprattutto attraverso l’introduzione della religione islamica, sopra la popolazione che abitava questi territori, onde garantire che non scoppiassero ribellioni alla sua frontiera occidentale. Infatti, per assicurare questo status quo le autorità ottomane hanno esercitato pressioni e concesso vantaggi economici per facilitare la conversione della popolazione balcanica all’Islam. Questa politica di conversione all’Islam, esercitata anche in altri territori dell’Impero, ha segnato per sempre le relazioni tra Turchia e penisola balcanica, legandole indissolubilmente. Le conseguenze di ciò, tuttora, continuano ad essere fondamentali nella politica regionale. E, nonostante la Bosnia ed Erzegovina successivamente sia stata parte integrante di altri imperi e federazioni, la comune religione con la Turchia è rimasta un fattore determinante per mantenere uno stretto legame tra i due Stati.

Quantunque vi sia una significativa distanza geografica tra i due Paesi – caratteristica che sempre è stata condizione importante per esercitare un’influenza in un’area – si osserva per diversi motivi un’intensificazione delle relazioni tra Ankara e Sarajevo. Per ottenere questo risultato la Turchia ha approfittato del fallimento della comunità internazionale nella sua strategia di intervento e di gestione del caso Jugoslavia. Durante e dopo la fine dell’ultimo conflitto balcanico, che ha portato alla totale dissoluzione della federazione titina, il giovane Stato non trovò una valida e concreta sponda nell’Europa che non soddisfò le aspettative della Bosnia; questo fu il motivo per il quale numerosi altri attori dello scenario globale cominciarono a cercare di incrementare la loro influenza nel Paese. La Turchia utilizzò la religione comune come forte appeal per incrementare la sua popolarità tra la popolazione bosniaca. Ma essa, con grande visione strategica, non si limitò ad “accattivarsi” le simpatie della comunità musulmana in Bosnia, in un Paese diviso ed insanguinato per motivi etnici e religiosi. Se, invece, Ankara si fosse limitata ad interventi finalizzati a supportare solo i musulmani dell’area, questa sarebbe stato un scelta a corta visione strategica che avrebbe portato ad Ankara più effetti negativi che benefici. Invece, la Turchia, realizzando una politica che non era conformista con quella degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, ha cercato di migliorare la sua reputazione tra tutti i gruppi etnici del Paese inclusa la comunità serba.

La Bosnia ed Erzegovina soltanto 20 anni fa ha vissuto sulla sua pelle un atroce genocidio etnico da parte dell’esercito di Milosevic e delle formazioni paramilitari. Il ritardato intervento della comunità internazionale che ha permesso, tra l’altro, il massacro a Srebrenica e le continue violenze tra le parti contrapposte, ha lasciato i bosniaci abbastanza divisi nella loro opinione verso l’Europa e la comunità internazionale in genere. La fase successiva alla fine del conflitto balcanico è coincisa con lo sviluppo economico della Turchia; ciò le ha permesso di disporre di risorse economiche per implementare una politica ambiziosa sul piano internazionale e, soprattutto, nell’area in esame. La stabilità e, specialmente, la continuità di questa politica è garantita dal lungo periodo di governo del partito AKP, che guida il Paese per il terzo mandato consecutivo. La politica turca verso gli Stati balcanici ha ormai una visione di lungo periodo grazie principalmente alla stabilità della politica interna. Uno dei primi frutti di questa continuità è stato proprio il rapporto con la Bosnia ed Erzegovina dove la maggior parte dell’etnia bosniaca vede la Turchia come “fratello musulmano”, come partner che fornisce aiuti economici e tecnologici. Di contro, il Paese vede mancare gli aiuti da parte dell’Unione Europea e della comunità internazionale, coinvolte esse stesse in una grave crisi economico-finanziaria con conseguente stagnazione della crescita.

La Turchia è un forte sostenitore della entrata della Bosnia nella NATO. Negli ultimi anni è aumentata in maniera significativa la cooperazione tra le università bosniache e quelle turche: Ankara finanzia e trasmette sui suoi mezzi di comunicazione gli eventi e le feste culturali bosniache e vengono anche assegnate borse di studio a giovani bosniaci per permettergli di studiare nelle università turche. Il centro linguistico turco Konya-Sarajevo, presso l’Università Internazionale di Sarajevo ed il Dipartimento di Turcologia dell’Università di Tuzla e Zenica sono esempi delle intensificate relazioni culturali tra i due Paesi. La Turchia si è accreditata anche quale mediatore nel conflitto bosniaco-serbo. Il 24 aprile 2010, grazie alla mediazione diplomatica di Ankara, è stato organizzato un vertice trilaterale ad Istanbul tra i leader dei tre Paesi. Di nuovo grazie all’attiva politica di Ankara, la Bosnia ed Erzegovina ha inviato un ambasciatore a Belgrado; il Parlamento serbo ha adottato una risoluzione contro il massacro in Srebrenica; il presidente serbo Tadic ha assistito alla commemorazione del quindicesimo anniversario del massacro di Srebrenica – atto senza precedenti nelle relazioni tra i due Stati. Nel 2011, i leader di Serbia, Bosnia e Turchia hanno partecipato ad un ulteriore vertice trilaterale a Karadjordjevo in Serbia, finalizzato alla collaborazione nella formazione, nella scienza, nelle relazioni culturali ed al processo di pacificazione. In tal senso, dall’1 gennaio 2011, l’Ambasciata turca a Sarajevo ha assunto il ruolo di punto di contatto per la durata di due anni. Tutto quanto sopra citato, evidenzia come il ruolo attivo della Turchia nella politica bosniaca abbia soppiantato la mancanza di una forte presenza dell’Unione Europea nella fase post bellica. Inoltre, la Turchia è riuscita ad ottenere maggiore riconoscimento rispetto alla UE da parte della comunità serba, grazie ai suoi sforzi diplomatici di mediazione tra le parti in causa.

Al fianco degli sforzi diplomatici, i bosniaci hanno delle grandi aspettative economiche nell’intensificazione dei rapporti con Ankara. La Turchia è un mercato grande, la sedicesima economia mondiale e le speranze di Sarajevo sono che l’aiuto politico porti con sé una intensificazione delle relazioni economiche tra i due Paesi. Sebbene le relazioni commerciali tra i due Stati siano considerevolmente aumentate negli ultimi dieci anni, il bilancio commerciale è in favore della Turchia; ciò significa che la debole economia bosniaca ancora non ha usufruito delle potenzialità del’enorme mercato turco. Gli investimenti della Turchia in Bosnia, nel periodo 2002-2011, ammontano a 138 milioni di dollari: ciò fa della Turchia il nono investitore più grande nel Paese. Questo è dovuto al fatto che, nonostante la Bosnia abbia potenzialità per attirare più risorse finanziarie dai mercati internazionali, gli investitori, inclusi quelli turchi, hanno ancora paura della situazione politica instabile. Ma, sebbene il miglioramento nelle relazioni economiche non proceda con la velocità che la Bosnia si auspicherebbe, Ankara si è resa conto che in una regione come la penisola balcanica, colpita da guerre fratricide, che stuzzica le aspirazioni di diverse potenze regionali e mondiali, la cooperazione politica e culturale deve andare di pari passo con quella economica, altrimenti le aspettative della popolazione non saranno raggiunte. Per questo motivo, nel 2011 Ankara è stato il quinto investitore nel Paese dopo Serbia, Lussemburgo, Olanda e Arabia Saudita. I settori di interesse in Bosnia per gli imprenditori turchi sono quello della telecomunicazione, il settore bancario ed i progetti infrastrutturali.

Ad ogni buon conto, affrontando quelle che sono le strategie di influenza politico-economica attuate da Ankara in Bosnia, che cerca di affermarsi quale “il grande fratello musulmano” di Sarajevo, intervenendo in tutte le aree e settori, non possiamo sottacere come vi siano altri Stati che, cercando di implementare la loro influenza nel Paese, stanno anch’essi utilizzando la carta “dell’eredità musulmana comune”, come l’Arabia Saudita, l’Indonesia e la Malesia. Queste Nazioni finanziano la costruzione di moschee, aiutano con sussidi le vedove di guerra e danno incentivi per diffondere l’apprendimento dell’Islam. E, mentre la Turchia utilizza l’Islam per aumentare la propria presenza politica in Bosnia, l’Arabia Saudita e la Malesia, per esempio, essendo geograficamente lontanissime dai Balcani, lo fanno allo scopo di diffondere ulteriormente l’Islam nel Paese. Ciò succede anche in Albania, e dato che i motivi della presenza in Bosnia sono molteplici ed a volte in conflitto tra di loro, ciò genera una certa concorrenza tra questi Paesi. Il vantaggio della Turchia, in questa situazione, è che non soltanto condivide la religione con gran parte dei bosniaci ma anche l’eredità dell’impero ottomano: costituendo ciò un legame speciale ed indelebile tra i due Stati. Inoltre, altro vantaggio sulle Nazioni musulmane “rivali” nel tentativo di influenzare politica ed economia bosniaca è che la Turchia continua a perseguire un Islam molto più moderato rispetto ad esse.

Comunque, i discorsi dei leader turchi che fanno spesso riferimento agli antichi fasti dell’Impero Ottomano ed auspicano la sua rinascita, dividono fortemente la società bosniaca, atteso che la metà dei 4 milioni di bosniaci sono di etnia croata e serba, quindi, rispettivamente, di religione cattolica ed ortodossa. Essi assolutamente non concordano e considerano come una tendenza all’arretramento il fatto che un Paese, che da secoli è stato laico e multi confessionale, diventi ogni giorno più islamico.

Albania

L’Albania, essendo un Paese di prevalente confessione musulmana, merita speciale attenzione per quanto riguarda i rapporti con la Turchia. Essa somiglia alla Bosnia per il fatto che entrambe le Nazioni sono prevalentemente musulmane, risultato dei lunghi secoli di dominazione ottomana, e tutte e due sono sempre stati Paesi secolari, ciò dovuto anche al fatto che durante il periodo del comunismo non vi era praticata di fatto nessuna religione. In Albania si è arrivati all’estremo: la religione è stata totalmente vietata dal dittatore Enver Hoxha.

Quantunque l’Albania non sia stata coinvolta in una guerra civile, al contrario della Bosnia, la difficile situazione economica presente dopo la caduta del regime comunista di Hoxha è stata utilizzata da molteplici organizzazioni musulmane turche, mediorientali e dei Paesi del Golfo, allo scopo di espandere la loro influenza in questa Nazione povera ed isolata. Nel caso dell’Albania si osserva una grande competizione tra le organizzazioni provenienti dalle summenzionate aree del mondo islamico che ha causato divisioni e contrapposizioni all’interno della società albanese. Questa “battaglia” per il “controllo” del Paese delle aquile ha visto, almeno al momento, prevalere la cooperazione turca, per semplici motivi, in gran parte eguali a quelli che la vedono primeggiare anche in Bosnia: la Turchia professa un Islam moderato in un Paese ove per decenni la religione è stata un tabù a causa della presenza di una dittatura comunista e, soprattutto, al fianco della volontà di diffondere il proprio credo, sviluppa una incisiva cooperazione economica e di sussidio all’educazione, alla sanità ed alla classi meno abbienti.

Cinque delle sette madrasa esistenti in Albania sono controllate da Sema – una fondazione religiosa che fa parte del movimento nato in Turchia “Gulen”. Esso investe considerevoli risorse finanziarie in progetti di supporto all’educazione nella penisola balcanica. Ciò è confermato dal fatto che, per la sua filosofia moderata e per le attività sociali che esso svolge in Albania, gode di molta popolarità tra la popolazione locale. Altro motivo comune alla Bosnia, per il quale la cooperazione turca trova maggiore facilità di penetrazione nel Paese delle aquile rispetto a quella di altri Stati musulmani, è la passata comune appartenenza all’Impero Ottomano. Malgrado i due popoli appartengano ad etnie diverse, per circa 500 anni l’Albania ha fatto parte dell’Impero Ottomano. Per questo motivo, la strategia turca si è focalizzata sui legami comuni e sull’eredità del passato per affermarsi in Albania.

FYROM (o Repubblica di Macedonia)

La FYROM è un altro Stato dove Ankara ha cercato di rafforzare la propria influenza. Dal momento del collasso dell’Impero Ottomano che fu considerato dalla maggior parte dei Paesi balcanici come l’opportunità di ristabilire la loro appartenenza all’Europa, il territorio macedone fu incessantemente oggetto di conflitti e guerre. Al termine della seconda guerra mondiale l’attuale repubblica di Macedonia fu incorporata nella federazione jugoslava. In seguito alla disintegrazione della federazione, la Macedonia ha ottenuto pacificamente la sua indipendenza, però questo ha dato inizio a dispute con la Grecia per quanto riguarda il nome attribuito al Paese, Repubblica di Macedonia. Atene non lo vuole riconoscere dato che nel suo territorio c’è una provincia con lo stesso nome. Questa disputa ha causato significativi ritardi nei tentativi della Macedonia di presentare la sua candidatura alla Nato e all’UE. E nonostante Skopje avesse sempre guardato con attenzione e sospetto il modus agendi degli altri Stati balcanici nei suoi confronti ed i loro tentativi di incunearsi nei suoi affari interni, la Macedonia non si sarebbe mai aspettata che la sua stabilità fosse messa a rischio proprio dal suo interno. Nel 2001 la minoranza albanese nel Paese si ribellò prendendo di sorpresa sia le autorità macedoni che la comunità internazionale. La minoranza, approssimativamente composta dal 25% della popolazione, concentrata nell’ovest della repubblica, chiedeva il riconoscimento di maggiori diritti ed autonomia. E benché i ribelli negassero che il loro obiettivo fosse quello di staccarsi dalla Macedonia, c’era una forte preoccupazione che il Paese potesse diventare un secondo Kosovo: la ribellione era cominciata poco dopo il conflitto in Kosovo, a causa del quale erano affluiti oltre 300.000 kosovari-albanesi in Macedonia.

Attualmente la situazione si è calmata, anche a fronte del fatto che la maggioranza dei rifugiati ha fatto rientro in Kosovo, ma non del tutto risolta dato che incidenti sporadici continuano a verificarsi nell’area. Il 30 gennaio del 2012, una chiesa ortodossa vicino alla città di Struga fu incendiata e forti proteste si scatenarono da parte di entrambe le etnie. Un fatto interessante e preoccupante, che meriterebbe di essere osservato ed analizzato meglio, è che durante le proteste la minoranza albanese sventolava la bandiera della Jihad islamica e cantava “Allah è grande!” e “Morte ai cristiani”. La situazione rimane delicata e lontana dal giungere ad una soluzione. C’è anche la paura che la minoranza albanese, famosa da sempre per non essere particolarmente osservante, potrebbe, invece, essere utilizzata e manipolata da gruppi islamici estremisti. In questa situazione complicata, la Turchia, secondo il motto del ministro degli esteri turco Ahmed Davutoglu, che ha proclamato l’idea di “zero problemi con i vicini”, ha cercato di svolgere in questo conflitto una funzione di mediatore e porsi come Stato neutrale. Ankara sostiene la Macedonia nel processo di adesione all’Unione Europea ed alla NATO. In uno dei suoi controversi discorsi, il ministro degli esteri turco Davutoglu, considerato l’ideologo della nuova strategia turca nei Balcani, ha dichiarato: “I cittadini della Macedonia, in qualsiasi posto nel mondo si trovino, possono, se hanno bisogno di aiuto, rivolgersi alle ambasciate della repubblica turca. Riceveranno aiuto come se fossero cittadini turchi!”. Lasciando al lettore l’interpretazione del significato della “disponibilità” di Ankara, noi dobbiamo menzionare, in questo contesto, l’importanza della cooperazione economica tra i due Paesi. Indubbiamente, le speranze di Skopije sono di attrarre sempre più investimenti dal Bosforo e di poter sfruttare le grandi potenzialità del mercato turco. L’azienda turca “Tepe -Akfen Vie – TAV – Airports Holding” ha ottenuto in concessione per 20 anni gli aeroporti di Skopje ed Ohrid, con l’impegno di investirvi oltre 200 milioni di euro.

Kosovo

Il più giovane Stato balcanico ha strette relazioni con la Turchia. Esse possono essere qualificate come “relazioni privilegiate”, secondo quanto dichiarato dall’ex presidente kosovaro Fatmir Sejdiu. Le forti relazioni politiche ed economiche di oggigiorno sono basate, anche in questo piccolo Stato, sui valori, le tradizioni e la religione comuni sviluppatisi nei secoli di dominazione ottomana nella penisola. Dopo la fine della Guerra Fredda e la secessione del Kosovo della Serbia, queste relazioni si sono fortemente intensificate. Altro fattore che ha favorito l’intensificazione di queste relazioni è, avendo riguardo alla cooperazione turca nell’intera penisola balcanica, la stabilità politica turca. Laddove la presenza al Governo, per il terzo mandato consecutivo, di un partito islamico moderato quale l’AKP consente di pianificare una politica internazionale di lungo respiro. Merito che deve essere riconosciuto all’AKP mentre, di contro, i governi balcanici non hanno nè strategie a lungo periodo nè hanno pianificato o analizzato le loro relazioni con Ankara. Comunque, per il giovane stato del Kosovo dove la percentuale di disoccupazione è la più alta di tutta la penisola balcanica, intorno al 45%, e una grande parte della popolazione dipende dagli aiuti internazionali e dalle rimesse dall’estero, gli investimenti turchi sono la conseguenza più aspettata di questa intensificazione delle relazioni. Lo Stato turco incentiva le grandi compagnie nazionali ad investire in Kosovo. Grazie a questi sforzi sostenuti dall’elite politica turca, Ankara ha ottenuto una diffusa popolarità ed approvazione tra la popolazione kosovara.

È cosi alto il prestigio della Turchia nella regione che il Paese ha cominciato ad assumere un ruolo di intermediario nei difficili negoziati tra il Kosovo e la Serbia. Con l’avvento al potere del partito AKP e grazie alla politica di Davutoglu di “zero problemi con i vicini”, la Turchia ha posto in essere ogni utile iniziativa per migliorare le relazioni con Belgrado. E nonostante un sondaggio recente suggerisca che soltanto il 15% dei serbi considerino la Turchia uno stato amico, soprattutto a causa degli aiuti di Ankara al Kosovo, le relazioni tra i due Paesi sono nettamente migliorate. Nell’ottobre del 2009, Abdullah Gull ha visitato Belgrado, il primo Capo di Stato turco a visitare la Serbia negli ultimi 23 anni. Gli sforzi diplomatici di Ankara hanno avuto successo perché, anche grazie alla mediazione turca, il Parlamento serbo ha adottato nel marzo 2010 una dichiarazione con la quale ha chiesto scusa per il massacro di Srebrenica. Il vertice trilaterale tra Serbia, Kosovo e Turchia è una ulteriore prova del ruolo forte giocato da Ankara nella politica balcanica e ciò deriva non solo dall’incisiva azione esercita dal Paese ma anche dalla poco significativa presenza della Comunità Europea nella regione.

Inoltre, il crescente prestigio della Turchia si deve pure al modus agendi diplomatico di Ankara, molto ben valutato. Ankara, per esempio, in via ufficiale si è dichiarata contraria alle richieste degli attivisti della regione Sandjak che volevano ottenere l’indipendenza dalla Serbia. Il risultato della prudente politica turca nei confronti di un Paese culla della religione ortodossa, ha pure una ragione economica. La cooperativa turca “Enca” e la cooperativa “Bechel” hanno vinto una gara, per un importo di 700 milioni di euro, per la realizzazione di una autostrada che collegherà l’Albania e la Serbia attraverso il Kosovo. Ulteriore accordo che è stato concluso tra Belgrado ed Ankara è quello che prevede che società turche debbano costruire una parte dei 445 km di autostrada che unirà Belgrado e il porto montenegrino di Bar.

Bulgaria

La Bulgaria è un altro Paese verso il quale la Turchia dimostra un interesse speciale soprattutto per la numerosa minoranza turca che vi vive. Questa minoranza etnica è presente nei territori bulgari fin dai tempi dell’Impero Ottomano. L’ultimo censimento del 2011 ha evidenziato come i 566.000 bulgari che si sono dichiarati turchi costituiscano l’8,8% della popolazione bulgara complessiva e rappresentino il gruppo etnico più numeroso dopo i bulgari veri e propri. Inoltre, bisogna tener presente anche ulteriori 326.000 persone che vivono in Turchia ma che devono essere considerate bulgare, dato che hanno la nazionalità di questo Paese e hanno il diritto di votare nelle elezioni indette dal Governo di Sofia. Esse, quindi, possono circolare liberamente all’interno dell’Unione Europea utilizzando i loro passaporti bulgari. Sommando i dati suesposti, possiamo osservare che approssimativamente un milione di persone di etnia turca hanno la nazionalità bulgara.
L’etnia turca è concentrata principalmente in due regioni bulgare – nel nord-est (Deliorman) e nel sud-est (i Ridoppi dell’Est). La minoranza turca in Bulgaria è rappresentata nella vita politica dal partito politico “Movimento per diritti e libertà”, i cui oppositori lo tacciano di essere un partito politico a mera connotazione etnica; esso ha fatto parte del governo bulgaro dal 2001 al 2008.

Anche attraverso la minoranza turca nel Paese – che da quando è caduto il Comunismo è stata sempre rappresentata nel Parlamento di Sofia – Ankara cerca di aumentare la sua influenza, a vari livelli, in Bulgaria. A decorrere dal 1990, la Turchia ha sempre operato nella direzione di rafforzare i suoi legami con la minoranza turca. Oggigiorno, la nuova tendenza è il tentativo di creare una coscienza turca tra la comunità Rom di religione musulmana presente nel Paese. In Bulgaria coloro i quali professano la religione cristiana sono attualmente la maggioranza (48,6%), mentre i musulmani sono il 27,9% e coloro i quali dichiarano di non praticare alcuna religione rappresentano il 16% della popolazione. Questi ultimi due gruppi sono oggetto di particolare attenzione non soltanto da parte di Ankara ma pure dai fondamentalisti islamici che cercano di fare proseliti tra di loro. La responsabilità per la presente situazione di vulnerabilità delle minoranze turca e Rom in Bulgaria, oggigiorno, è soprattutto dell’elite politica del Paese. Sia in epoca comunista che post-comunista poco si è fatto e si fa per cercare di integrare queste comunità, generalmente quelle con il reddito più basso e maggiori problemi di disoccupazione e di educazione didattica.

Di certo, il regime comunista ha gravemente danneggiato la reputazione del Paese a livello mondiale per l’espulsione di centinaia di migliaia di bulgari di etnia turca effettuata negli anni Ottanta, atto famoso come “la grande escursione” ed il forzato cambio dei nomi turchi con bulgari. Questo è l’esempio di un grave errore geopolitico, che portò delle conseguenze negative per un lungo periodo di tempo. Esso, però, ha dato ad Ankara la possibilità di rafforzare la sua influenza sulla minoranza turca in Bulgaria. Il grande errore strategico di tutti i Governi bulgari post-comunisti è stato quello di trascurare per decenni i problemi e le aspirazioni di queste minoranze etniche. Analfabetismo, mancanza di servizi sociali e opportunità di lavoro sono la realtà quotidiana con cui si devono confrontare i Rom, e la minoranza turca. Qui sorge una domanda scontata: chi trae vantaggio dal loro attuale status quo?

Il crescente sviluppo economico di Ankara è un altro elemento importante nelle relazioni tra i due Paesi, dato che entrambi cercano di trarne i maggiori benefici possibili. La Turchia è uno dei più importanti partner commerciali per la Bulgaria ed, inoltre, costituisce un mercato dalle grandi potenzialità per le merci bulgare. Di contro, anche Ankara trae benefici economici dalle relazioni con Sofia – società turche stanno costruendo le più importanti autostrade, finanziate con fondi della comunità europea. Una criticità è rappresentata dal fatto che se, da un lato, gli investimenti turchi portano benefici economici per l’economia bulgara, dall’altro sono diretti, nella stragrande maggioranza dei casi, a vantaggio della solo minoranza turca, costituendo ciò un rischio da un punto di vista geopolitico. Ankara, in tal modo, diffonde la propria influenza su quella parte di popolazione bulgara che professa la religione islamica ed ad essa è legata dall’appartenenza allo stesso gruppo etnico.

Conclusioni

La crescita dell’influenza turca nei Balcani, una regione nella quale, da secoli, molti interessi e poteri si scontrano, è dovuta a una grande varietà di fattori, ma il più significativo di essi è rappresentato dal vacuum politico di poteri forti nell’area. Una delle ragioni di ciò è di certo costituta dal lungo e difficile processo di integrazione nell’Unione Europea della Turchia e dalla mancanza di una metodica e ben delineata politica europea nella penisola balcanica. Di contro, invece, la politica turca è diffusamente basata sull’aumento dell’influenza su paesi ove è forte la presenza di etnie che professano l’Islam. La Turchia coopera con questi Stati utilizzando metodi moderati, tenendosi a debita distanza dall’estremismo religioso islamico. Aiuti finanziari, mediazione nei conflitti, investimenti, supporto a livello politico-diplomatico, formazione – sono i metodi usati da Ankara per estendere la sua influenza nella regione. Al contrario dell’Unione Europea, la Turchia, nella sua azione politica di lungo periodo, è agevolata dalla stabilità politica interna. Il partito islamico moderato di Erdogan ha da poco vinto le elezioni politiche per il terzo mandato consecutivo.

Un elemento di eccellenza e di primazia in questa nuova politica della Turchia è rappresentato dalle idee portate avanti dalla influente figura del Ministro degli esteri Davutoglu, basate essenzialmente su due strategie: la prima è “zero problemi con i vicini”, la seconda, tendenzialmente in contrasto con la prima, è basata sulla filosofia del Neo Ottomanesimo, strategia quest’ultima che preoccupa non poco i vicini Stati balcanici. La conferma che la filosofia del Neo Ottomanesimo ha cominciato a dominare la politica turca per i Balcani è basata soprattutto sui discorsi provocatori pronunciati dai leader turchi. Esempio tra questi è stato un discorso pronunciato dal Ministro degli esteri turco in Bosnia ed Erzegovina, dove ha detto: “I secoli ottomani sono stati un successo. Adesso dobbiamo reinventare tutto questo. La Turchia è tornata!”. Sebbene queste due strategie a prima vista cozzino l’una con l’altra, esse sono portate innanzi cercando di farle convivere e soprattutto evitando di scatenare reazioni forti in Paesi comunque generalmente caratterizzati dalla presenza di una forte, se non prevalente, comunità cristiana.

La sopra descritta politica turca, come ogni progetto ambizioso, nasconde anche molti rischi. Il primo è che i Balcani sono una regione dove molte potenze mondiali come gli Stati Uniti, la Russia e l’Unione Europea incrociano i loro interessi geopolitici. Perciò per realizzare la sua regionale strategia politica Ankara deve tener conto di questi influenti competitori. Il quid pluris a disposizione di Ankara è, come detto, che essa, al contrario degli altri competitori, può usare a suo vantaggio il patrimonio culturale e storico comune con gli Stati balcanici; la religione musulmana, che condivide con parte della popolazione di questi Paesi; la presenza nella maggior parte di queste Nazioni di minoranze etniche turche. Questo spiega il perché la Turchia cerchi di estendere la sua influenza politico-economica in Bulgaria, Macedonia, Albania, Bosnia ed Erzegovina e non, per esempio, in Grecia o Romania, Paesi questi ultimi con i quali ha scarse affinità storiche, religiose e culturali.

Altra criticità con cui deve confrontarsi l’ambiziosa politica turca nei Balcani è l’opposizione delle locali comunità cristiane e, in maniera minore, la concorrenza dei gruppi e delle organizzazioni religiose di matrice araba che operano nella regione, cercando anch’esse di influenzare la politica della penisola. Inoltre, parte della società bosniaca, kosovara e albanese non vede di buon occhio questa pressante ambizione “imperialista” di Ankara. Ulteriore, ma non meno importante, problematica cui deve rapportarsi la politica estera turca è che essa è indirizzata ad acquisire sempre maggior influenza in altre aree del pianeta e, nello specifico, nel Mondo arabo e in Asia. Queste ambizioni richiedono tante risorse economiche di cui non è certo che Ankara disponga. Un rischio considerevole è che questa grandiosa e dispendiosa politica estera turca comporti l’utilizzo di risorse finanziarie che dovrebbero invece essere destinate alla sviluppo interno del Paese, soprattutto con riguardo alle poverissime regioni anatoliche. In tal senso, la Turchia potrebbe rischiare di diventare, come è stata definita da un canale televisivo americano, “con la presunzione di essere una Rolls Royce ma con il potenziale di una Rover”. Non può, infatti, sottacersi, che la Turchia abbia molti problemi interni che non sono stati ancora risolti.

Sebbene il Paese si stia convertendo in una potenza mondiale emergente, i problemi interni sono ancora innumerevoli. Sembra che tutti i vantaggi del Paese nascondano un numero considerevole di svantaggi. La crescita economica attuale della Turchia dipende in prevalenza da investimenti esteri che possono essere ritirati con la stessa velocità con cui sono elargiti. La Turchia ha un ruolo importante in molti settori industriali come quelli della edilizia, della manifattura, dell’abbigliamento etc., però ancora non riesce ad imporsi in settori trainanti come quelli delle nuove tecnologie. Essa, negli ultimi anni, ha avuto una crescita costante del PIL, ma a fronte di questo non è assolutamente cambiato il tenore di vita della maggior parte dei cittadini, dato che una gran parte della popolazione turca vive in povertà. Le affascinanti città di Istanbul e Ankara, simboli della modernizzazione del Paese, non bastano a nascondere l’estrema povertà in cui versano tante regioni rurali nel sud-est del Paese, arretrate sia sul piano economico che culturale. Altro aspetto fondamentale cui si deve aver riguardo quando ci si interessa della Turchia è la questione curda, di cui non ci occupiamo nel dettaglio in questo elaborato, ma è la condizione della principale minoranza nel Paese (circa il 18% della popolazione complessiva). Una comunità quella curda osteggiata nelle sue rivendicazioni, concentrata territorialmente ed isolata. Tutto quanto predetto, ci fa concludere che il futuro non sarà solo rose e fiori per la Turchia.

Infatti, soltanto il futuro ci potrà dire se le ambizioni del governo AKP nei Balcani porteranno ad Ankara i benefici desiderati. Una cosa però è sicura: in una sola decade, la Turchia ha accresciuto enormemente la sua influenza sulla penisola balcanica, convertendosi in una superpotenza regionale con delle ambizioni sempre crescenti.


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