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Le linee d'ombra di Amitav Ghosh. Andante cantabile, ma però con moto
Creato il 17 settembre 2011 da SpaceoddityLa voce del narratore de Le linee d'ombra è così: pensosa, inquieta, incerta sulla distanza tra sé e il resto del mondo. Un mondo, quello ritratto da Amitav Ghosh, tutt'altro che deserto, popolato di fantasie e personaggi sempre disegnati con gli occhi altrui, uomini e donne che cambiano dimensioni, tratti, colori, timbri a seconda di chi stia lì a guardarli.
Le linee d'ombra di Amitav Ghogh è un campionario di umori, di sentimenti, di illusioni che, dapprincipio, può spiazzare e non smette di sorprendere per la sua varietà dalla prima all'ultima pagina. Come in un mercato dell'India, paese in cui si svolge questa storia, stati d'animo e conoscenza del mondo emergono con la sorpresa delle spezie, accavallandosi l'una all'altra, entrandoti dentro, con un sentimento di esotica familiarità.
Proprio questo sentimento di diversità si lega al protagonista incontrastato del romanzo, il giovane ed entusiasta Tridib, soprattutto agli occhi del cugino che ne racconta la storia. Tridib studia archeologia, studia le forme, le origini, studia la natura; Tridib, il parente ricco, ha viaggiato molte volte fino a Londra, per lui Calcutta è uno sfondo non più importante di altri. Tridib, avvolto nel mito di un ragazzo, poi uomo, che lo vede sempre arenarsi oltre i marosi della sua crescita e che, infine, lo perde definitivamente.
E le donne, May, Ila, Mrs. Price, la lunatica, dolcissima Th'amma, la "nonna" del romanzo, gli amori di Tridib, giovane così legato a un'aristocrazia cosmopolita di chi vive tra una terra e l'altra, eppure così legato a quella tradizione culturale indiana della famiglia. Una famiglia che si allarga con straordinaria fantasia, proveniente da una casa che a sua volta lievitava - come ne La casa degli spiriti di Isabel Allende - senza riuscire ad accogliere tutti nello stesso spazio: alle origini di questa storia c'è un confine brutale tracciato in quella casa a Dacca, un confine che separa i due rami della famiglia in due destini diversi - che però non riescono a separarsi l'uno dall'altro.
In Le linee d'ombra di Amitav Ghosh, tutta questa realtà, tutti i disordini affettivi, familiari, emotivi, politici vengono risolti con l'abilità del giocoliere, che non può lasciarsi scappare nessuna delle palline, ma non può neanche trattenerle tutte insieme perché il gioco continui. Così, il romanzo è un mosaico da ricostruire, talvolta neanche agevolmente, per rintracciare una voce che comincia con l'essere quella di un ragazzino per rivelarsi infine uomo adulto e maturo. Ghosh ci mostra, che tra l'uno e l'altro, tra il bimbo e l'uomo, entrambi impotenti di fronte a un mondo dolorasamente frantumato, non c'è una sola linea d'ombra (nel senso antonomastico di Conrad), bensì molte: si devono superare tutte, si deve morire un po' in tutte come bambino, si muta e non ci si riconosce più allo specchio dell'altro.
Ghosh pone un discrimine fondamentale tra i due momenti, tra sé e il mondo in cui si sarà diversi: è un momento, già alla fine del romanzo, in cui la voce del narratore si fa definitvamente adulta. In quattro pagine magistrali, a mio avviso le più belle e intense del romanzo, l'autore descrive la paura, la sua sostanza, presenta questo stato d'animo, con una forza commovente e un linguaggio vivido, come nell'insegnamento di Tridib: immaginare con esattezza. Non con la malinconia dell'estraniazione di uno Svevo e non l'espressionismo di un Savinio/Nivasio bambino, bensì con un'esattezza insieme chirurgica e barocca, con un ammirevole sforzo comunicativo, Ghosh parla della paura, come della paura di un'inondazione nel deserto: imprevedibile, globale, senza respiro.
Le ultime pagine di Le linee d'ombra sono un atto d'amore nei confronti di Tridib, il cugino amatissimo, l'uomo che aveva uno sguardo tutto suo e una volontà di andare oltre, oltre ciò che appare, che ci si aspetta, o che semplicemente possiamo fare:
Sapevo che non avrei mai visto nulla nel modo in cui lo vedeva Tridib, con la sua immaginazione capace di prospettive, infinitamente più particolareggiate e precise. Una volta mi disse che non si può conoscere nulla se non attraverso il desiderio, il desiderio vero, non l'avidità o la cupidigia, bensì un desiderio puro, doloroso e primitivo, un desiderio intenso di tutto ciò che è fuori da sé, un tormento della carne che conduce oltre i limiti della propria mente, in altri tempi e altri luoghi, e perfino, se si è fortunati, a un luogo in cui i confini fra il proprio sé e la propria immagine allo specchio sono cancellati.
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