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Le metafore e la politica

Creato il 23 settembre 2015 da Speradisole

LE METAFORE E LA POLITICA

metafora
Le metafore sono dappertutto, anche se di solito non ce ne rendiamo conto, perfino l’affermazione «le metafore sono dappertutto» è una metafora, perché utilizza un avverbio di luogo per alludere a una realtà concettuale. Ma quando si dice «sono dappertutto» non si esagera esse sono nel diritto, nella psicoterapia, nella pubblicità, ovviamente nella letteratura.

Dappertutto e, certo, anche in politica. E proprio in questo campo, più che in altri, oggi viviamo l’epoca delle troppe metafore, delle metafore sbagliate, delle metafore tossiche.

Basta sfogliare un quotidiano per verificarne l’abnorme proliferazione. Braccio di ferro tra Atene e Berlino, apriamo un tavolo, c’è qualche mela marcia, i cespugli del centro, il teatrino della politica, abbassare la guardia, il colpo di spugna, franchi tiratori, gogna mediatica, macchina del fango, staccare la spina, scontro tra falchi e colombe.

Si potrebbe continuare a lungo, ma anche solo questo rapido esempio ci illustra il discorso politico di oggi, molto ricco di immagini, ma poco di idee.

Le metafore politiche, analizzate dal punto di vista etico, si dividono in due categorie: molte sono strumenti di manipolazione e ottundimento dell’intelligenza individuale e collettiva; altre un formidabile mezzo di trasformazione del reale. Le prime costituiscono uno degli indici più affidabili per misurare lo svuotamento del linguaggio; le seconde sono uno strumento potente per evocare le emozioni e per coinvolgere i cittadini nel progetto di cambiamento della società.

La spropositata quantità di metafore è solo una parte del problema. L’altro fondamentale aspetto riguarda la qualità delle metafore e l’orizzonte di senso che esse sono in grado di produrre.

Anche se è difficile stilare classifiche e graduatorie, in ambito come questo, sembra impossibile negare che la più potente e, per certi aspetti, devastante della metafora politica italiana degli ultimi decenni sia quella berlusconiana della discesa in campo.

Nel famoso discorso preregistrato del 26 gennaio 1994, Berlusconi annuncia la sua intenzione di darsi alla politica.

Conviene leggerla per intero:

«Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare».

Un’annotazione preliminare va fatta sull’uso dell’allitterazione ho scelto di scendere. Il sostantivo scelta, il verbo scegliere, sono parole potenti, che alludono a una dimensione di valori umani alti e nobili. La locuzione scendere in campo, per via del suo allineamento con scelta si presenta come un’espressione carica di dignità e coraggio.

Il capolavoro di comunicazione politica è però nella selezione della metafora propriamente detta.

Le squadre scendono in campo era l’espressione con cui per decenni i telecronisti e radiocronisti sportivi avevano narrato il momento iniziale, carico di eccitazione, di una partita di calcio, in particolare della nazionale. Non si dimentichi, in proposito, che il nome assegnato da Berlusconi al suo movimento politico fu proprio ‘Forza Italia’ e che i suoi aderenti furono definiti azzurri, con una diretta e non equivoca alla maglia della nazionale.

E’ bene sottolineare che in un paese come l’Italia, con le sue differenze tra Nord e Sud, con la diffidenza e spesso il senso di estraneità che caratterizzano i rapporti tra abitanti di regioni diverse e lontane, uno dei pochi profili identitari che riguardano la stragrande maggioranza della popolazione è costituito proprio dalla passione calcistica e dal tifo per la nazionale.

La metafora discesa in campo era in grado di agire, e di fatto agì, mettendo in moto un potente quanto inconsapevole senso di appartenenza.

È indubbio che quella metafora fosse un puro strumento di manipolazione collettiva. Era, infatti, fine a se stessa. La sua forza non scaturiva da un progetto politico, ma da una geniale intuizione mediatica.

In breve tempo, tutti, alleati e avversari, giornalisti e commentatori, hanno presa a usarla ossessivamente fino alla nausea.

Fino all’assurdo capovolgimento elaborato in occasione delle elezioni politiche del 2013. Molti ricorderanno come il senatore Monti, lanciandosi in un’avventura politica dalle premesse discutibili e dagli esiti sfortunati, ebbe a dire e ripetere varie volte di aver preso la decisione di «salire in politica». La bizzarra espressione prendeva dichiaratamente spunto dalla metafora berlusconiana della discesa in campo, per rovesciarla e negarne il contenuto.

Laddove Berlusconi scendeva, Monti saliva. La prima espressione è una geniale metafora, la seconda un gioco di parole, una elaborazione fredda ed intellettualistica, priva di qualsiasi forza persuasiva o capacità di coinvolgimento.

Un’altra metafora efficace quanto quella della «discesa in campo» è quella del «mettere la mani nelle tasche degli italiani». Anche questa frase evoca e dà forma a qualcosa di già presente nella mente dei destinatari: la percezione del fisco come qualcosa di aggressivo, intrusivo e rapace. Un borseggiatore, cioè un ladro, che ti infila le mani in tasca e ti toglie quello che è tuo.

Nel medesimo orizzonte concettuale si colloca la metafora della cosiddetta ‘pressione fiscale’. È un’espressione che sembra neutra e invece non lo è affatto.

Pressione è una forza esercitata su una superficie circoscritta. Allude alla limitazione della libertà, comunica un senso di costrizione, rimanda all’idea di qualcuno che ti sta schiacciando.

È nell’apparente neutralità di questa espressione che si nasconde la sua forza. Essa, come quella della discesa in campo, ha segnato, per diversi anni una supremazia politica che era anche e soprattutto una supremazia linguistica. Tutti gli avversari di Berlusconi, infatti, sono stati inchiodati per anni al tentativo, fallito di disfare la potenza comunicativa delle sue metafore. Tutti hanno recepito i suoi schemi linguistici e, nel tentativo di contestarne i deboli argomenti politici, non hanno fatto altro che confermare il perimetro linguistico da lui definito e, dunque, la sua centralità politica.

Le metafore manipolatorie e tossiche non si contrastano con la loro negazione, ma con l’elaborazione di altre metafore, capaci anch’esse di evocare strutture interiori e definire diversi quadri di riferimento.

Ecco un esempio di come George Lakoff, (docente all’Università di Berkeley) costruisce un’articolata metafora per proporre un modo diverso di pensare alle tasse e al dovere di pagarle:

“Pagare le tasse significa fare il proprio dovere, versare la propria quota di iscrizione per vivere negli Stati Uniti. Se ci iscriviamo a un club o a un circolo qualsiasi paghiamo una quota di iscrizione. Perché? Perché non siamo stati noi a costruire la piscina. E dobbiamo pagarne la manutenzione. Non abbiamo costruito noi il campo da baseball. E qualcuno lo deve pulire. Forse non usiamo il campo da squash, ma comunque dobbiamo pagare la nostra parte. Altrimenti nessuno farà la manutenzione e il circolo andrà in rovina. Quelli che evadono le tasse, come le società che si trasferiscono alle Bermude, non pagano quello che devono al loro paese. Chi paga le tasse è un patriota. Chi le evade e manda in rovina il suo paese è un traditore”.

I progressisti italiani, purtroppo, non hanno la capacità di costruire metafore convincenti e solidamente etiche. Nel discorso politico della sinistra sono invece numerosi gli esempi di metafore mal fatte e, dunque, inefficaci o addirittura controproducenti.

Si pensi all’impostazione retorica dell’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. I suoi interventi sono effettivamente ricchi di metafore. Si tratta però di immagini fiacche; capaci tutt’al più di strappare un sorriso.

Particolarmente infelice e dannosa, fra le metafore bersaniane, è quella del partito-ditta. Fra i sinonimi di “ditta”, sul vocabolario, si trova la parola azienda ed è impossibile non annotare come, per lunghi anni, il partito-azienda per definizione sia stato Forza Italia.

Poca differenza semantica fra partito-azienda e partito-ditta e una certa imprudenza linguistica per il capo del principale partito della sinistra, erede di una grande tradizione ideale. Un partito non è, o non dovrebbe essere un’impresa commerciale o industriale. Soprattutto non lo dovrebbe essere un partito di sinistra, ipoteticamente portatore di valori in contrasto con un’idea della politica intesa come un grande mercato. Ne fosse o meno consapevole il suo creatore comunicava e accreditava un’idea politica come mercato elettorale nel quale ciascun gruppo politico offre un programma ai cittadini come un’impresa vende le proprie merci alla massa dei consumatori.

Il problema è che le metafore di Bersani, come ha chiarito Umberto Eco, spesso non sono metafore in senso tecnico, ma esempi paradossali. Giochi di parole.

Si pensi a battute come «con tre prosciutti non ci vengono fuori un maiale», per manifestare scetticismo sulla tenuta di una legge finanziaria. Oppure all’immagine di «una mela attaccata al ramo, che viene giù quando c’è un cestino nuovo che la prende su», per cercare di enunciare il concetto di consenso durante la campagna elettorale per le primarie. O ancora la famosa ma criptica espressione: «so anch’io che c’è tanta gente che preferisce un passerotto in mano piuttosto che un tacchino sul tetto, però questo è un condono» usata per criticare ipotesi di accordo sul rientro, previa tassazione agevolata, di capitali illecitamente esportati in Svizzera.

Ognuno può giudicare dell’efficacia o meno di questi giochi linguistici. La questione è che Bersani rivendicava il carattere consapevole, deliberato, potremmo dire strategico delle sue scelte linguistiche. Egli affermava di aver elaborato un proprio stile, per renderlo «un tipo di linguaggio pieno di metafore dal tratto popolare, alternativo al vecchio e spesso incomprensibile politichese».

Bersani, per molti versi politico di ottima qualità, competente e onesto, è riuscito solo a costruire giochi di parole, a volte paradossali, quasi sempre inefficaci. Bersani diceva la verità sugli obiettivi della sua politica e sui mezzi per conseguirla. Dire la verità però non basta, se non la si dice in modo persuasivo, facendo percepire il proprio punto di vista, il proprio sistema di valori. Usare le metafore è una forma retorica difficile non basta provare con buone formule. Farlo è difficile e richiede talento.

E il talento non manca all’attuale presidente del Consiglio Matteo Renzi, incline a un uso della metafora piuttosto diffuso, quanto mai disinvolto. In particolare, Renzi sembra prediligere metafore che alludono a una soluzione energica dei problemi. Le riforme, per esempio, vanno approvate con la forza di un «caterpillar» o di «un rullo compressore»; gli avversari, siano Forza Italia o la minoranza interna, vanno «asfaltati». E naturalmente, la vecchia classe dirigente del Pd va «rottamata».

È con la metafora della rottamazione che Renzi si è imposto all’opinione pubblica come il rinnovatore del gruppo dirigente e, più in generale, della classe politica. Ma cosa c’è dietro questa metafora così fortunata e così discussa? Qual è, se c’è, il sistema di valori? Qual è, se c’è, la prospettiva morale? Cosa significa, nella sostanza, al di là del superficiale riferimento al linguaggio della pubblicità automobilistica? Difficile sostenere che questa metafora sia munita di forza trasformativa. Di capacità di convogliare energie morali. Molto più facile cogliere il coacervo di risentimenti che esso evoca: io ce l’ho con quello che è vecchio, voglio sbarazzarmi di persone come ci si sbarazza di vecchi meccanismi; la mia spirazione non è di costruire un mondo nuovo, ma di ottenere una macchina nuova.

Si tratta di una metafora sostanzialmente violenta e di gusto discutibile, in quanto applica a persone ciò che si fa per oggetti inanimati. Non è un caso che Renzi da un certo momento in poi l’abbia abbandonata, quando, peraltro, era ormai entrata a far parte, proprio come quella discesa in campo, del lessico politico quotidiano.

(Tratto e riassunto da: “Con parole precise – breviario di scrittura civile”, di Gianrico Carofiglio)



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