Lo vedi quell’armadio che prende quasi tutta la stanza? Se ci guardi dentro non ci troverai dei vestiti appesi. È pieno di cuscini e coperte. Vado lì dentro. Mi tiro dietro l’anta e sto seduto al buio per delle ore. Ti sembrerà una cosa molto stupida. Io ci sto benissimo. Non mi annoio affatto. Sto lì. .[1]
Se oggi è possibile sostenere che l’autore britannico Ian McEwan, nato ad Aldershot nel 1948 e residente da anni a Londra, sia uno dei maggiori scrittori in lingua inglese, maggiormente tradotto e diffuso nel mondo, va senz’altro osservato che la popolarità di cui oggi gode non fu una costante che ha accompagnato la sua intera produzione letteraria. Andando indietro negli anni, infatti, e cioè ritornando al periodo in cui McEwan era poco più di ventenne, le sue prime prove di scrittura non furono accolte con plauso ed entusiasmo dal pubblico che, invece, ne rimase piuttosto scosso, investito da una sorta di perturbante shock istintivo.
Per chi conosce l’autore principalmente per opere che anno avuto grande eco, prima fra tutte Espiazione che nel 2001 fece molto parlare dell’autore portandolo alla ribalta e, negli anni precedenti il romanzo Amsterdam, sembrerebbe che non ci sia niente di completamente avulso dalla normalità nelle sue storie e che la sua narrativa, dall’impalcatura prevalentemente tradizionalista, non contenga in effetti elementi di chiaro pericolo sociale.
In realtà non è proprio così o, meglio, c’è dell’altro. Per iniziare va ricordato che in Amsterdam l’autore proponeva una storia senz’altro riuscita di tre vecchi amici che, per perseguire quella che ciascuno riteneva la scelta migliore per sé stesso, finivano per allontanarsi tra loro sebbene senza l’intervento di un vero e proprio diverbio ma mettendo in campo degli atteggiamenti personalistici e vendicativi contro gli altri. L’intenzione di McEwan era probabilmente quella di vedere come nella scelta canonicamente binaria che la vita ci pone tutti i giorni tra l’aiuto incondizionato al prossimo e il perseguimento di un solo beneficio personale, diverse persone si comportassero. Elemento questo in sé cruciale e che ritorna più volte, a varie altezze, anche in altre sue narrazioni, sempre interessato ai meccanismi cognitivi dell’uomo, alla psicologia sociale e dunque a fornirci situazioni esemplari di episodi in cui l’individuo viene effettivamente visto per quel che è.
La novità di una narrazione come Amsterdam è, però, tutta legata al quesito bioetico che viene posto ossia quello dell’eutanasia che due personaggi hanno deciso di accettare in un patto segreto tra di loro impegnandosi ciascuno a favorire la morte dell’altro se determinate circostanze fossero intercorse. Si sa che parlare di questioni che richiamano l’interesse della società ossia di come una comunità dotata di diritti civili risponda a sfide che concernono la vita dell’uomo e pongono risposte opinabili e contrastanti, è un qualcosa che fa, di chi si fa portavoce di simili tematiche, un progressista laico o al contrario un profanatore del diritto alla vita.
McEwan, nel momento in cui decide di parlare di ciò, sa bene che la risposta di un ipotizzabile pubblico e soprattutto della critica, che in via generale lo ha per lo più sempre attaccato e mal-compreso, sarà immancabilmente radicale, spietata e di certo molto rumorosa.
Un simile dilemma esistenziale viene posto nella recente pubblicazione de La ballata di Adam Henry (2015) in cui l’autore ha sapientemente organizzato un plot attorno alla battaglia giudiziaria che si realizza a seguito di un caso in cui una famiglia di Geova rifiuta strenuamente l’intervento trasfusionale per suo figlio, seriamente malato di leucemia. Si tratta, anche in questo caso, di prendere dalla società quegli elementi di scarto, liminari, interstiziali, di rottura che possono infuocarsi tra compagini nutrite della società, ciascuna forte di una sua credenza o visione ideologica. Volendo rimanere obiettivi e lucidi dinanzi a queste circostanze per poter azzardare un giudizio mosso da razionalità, ben lontano da pietismi o da ammorbamenti religiosi, l’individuo si trova impossibilitato a venirne fuori. Quasi in una gabbia. Se il diritto alla vita va difeso in ogni circostanza, contravvenendo anche a una disposizione religiosa che vieta un certo tipo di trattamento medico d’urgenza, allora chi ha effettivamente il potere di decidere su questioni di questo tipo se il diritto alla libertà religiosa e all’espressione deve essere comunque riconosciuto e garantito?
Per queste ragioni in fondo McEwan continua ad essere un autore che viene analizzato con la lente d’ingrandimento, scrutato in lontananza, osservato come un ambiguo animale sociale difficilmente comprensibile. Nel momento in cui ci si espone su determinate questioni rilevanti da un punto di vista filosofico e sociale è ovvio che la risposta che ne segue sia diversificata e stridente, sostenuta in entrambi i casi da buone e condivisibili idee di fondo che analizzano la questione da varie prospettive.
Va osservato, però, che laddove sia concreto sostenere che McEwan sia lo scrittore dell’aporia bioetica, lo stesso non ci fornisce in maniera chiara elementi per meglio comprendere quale sia la sua opinione su quelle determinate questioni, ossia il suo credo, la sua ideologia, la sua vicinanza a certe idee o meno. Questa mancanza è al contempo necessaria e doverosa dacché, nel momento in cui analizziamo un’opera, andremo a considerare la voce narratoriale, l’io scrivente, che spesso (soprattutto nella sua produzione più recente) non corrisponde allo stesso autore. Per mezzo di una documentazione che possiamo definire para-letteraria, fatta cioè di articoli ed interviste fatte all’autore, è possibile andare a completare quello spazio grigio, quelle lacune interpretative che possono crearsi nella mente di chi, terminando di leggere un suo libro, può chiedersi: ma lui da che parte sta? Difende la decisione del giudice Fiona che si batte per la difesa della vita o, invece, crede più nel diritto alla libertà di Adam Henry? D’altronde sono entrambi sue creature e non è del tutto chiaro leggendo l’intero libro se alla fine l’autore, cioè il McEwan uomo, possa schierarsi in difesa della religione con tutti i suoi dogmi e tutto ciò che essi comportano o se, invece, da buon illuminista (come spesso è stato definito) risieda nel riconoscimento di ciascuna libertà la sua fede più autentica.
Quella letteratura secondaria, allora, volta alla investigazione più approfondita, al confronto con l’autore, a una lettura prospettica degli accadimenti, può consentire di avanzare alcune ipotesi al riguardo. Dal mio punto di vista si deve necessariamente partire da un assunto imprescindibile: l’autore utilizza temi bioetici non per fomentare occasioni d’acredine e dunque inasprire un dialogo tra fazioni diverse ma per mostrare come l’uomo, nella sua individualità dotato di conoscenze, esperienze e sistemi di pensiero nei quali si riconosce, risponde diversamente a un unico fatto. È curioso notare, allora, che ciò che corrisponde alla conformazione nei confronti del proprio credo (il rifiuto delle trasfusioni di sangue per i Geova) si configura come una sorta di favoreggiamento all’omicidio ma, ribaltando la questione, è anche possibile sostenere che i familiari del minorenne sono liberi di decidere per lui come meglio credono secondo la loro cultura e di contro l’intervento giudiziario non è altro che una ingerenza pericolosa nella sfera privata e del diritto a professare la propria fede. Sta di fatto, comunque, che l’autore lancia il sasso e, pur non nascondendo la mano, è autonomamente consapevole della ridda di consensi più o meno convinti e della sequela di critiche, contestazioni, ridicolizzazioni e addirittura offese.
Corre l’obbligo di parlare dell’esordio di McEwan quando si richiama la stravagante multiformità delle risposte che riscuote nel pubblico tra lovers e haters. L’autore esordì alla fine degli anni ’70 con due raccolte giovanili di racconti dal titolo rispettivamente di Primo amore, ultimi riti (First Loves, Last Rites, 1975) e Fra le lenzuola (In between the Sheets, 1978) pubblicate in termini più recenti nella forma di un volume unico (in Italia tutte le opere dell’autore sono tradotte e pubblicate da Einaudi).
Come ho già avuto ampiamente modo di osservare in precedenti saggi dedicati alla sua scrittura[2] e in particolar modo nella tesi di laurea magistrale[3], l’autore si fa conoscere al grande pubblico quale portavoce di tematiche scottanti che hanno portato la critica a definirlo come enfant terrible, esponente del neogotico e ad adottare per lui il nomignolo di Ian Macabre. Nella serie di racconti raccolti nelle due sillogi, in effetti, l’autore ci parla di episodi sociali degradati, famiglie assenti, genitori disattenti e giovani violenti, privi di educazione e modelli, abbandonati a sé stessi e forzati dall’ambiente a crescere da soli e velocemente. In queste circostanze assistiamo a ragazzini deviati che compiono azioni inenarrabili e stomacanti: l’incesto tra due fratellini in cui il ragazzino, maggiore di poco alla sorella, simula di voler giocare con lei salvo poi finire per penetrarla in una delle scene più grottesche e dure probabilmente da accettare. La gravità dell’episodio sta nel fatto che il ragazzino abusa dell’incoscienza della sorella piccola che, con la scusa di giocare, lo segue nel suo piano infernale senza ben comprendere il gioco e, dall’altro, nel fatto che il ragazzino ha ben chiaro in testa che quello che andrà a commettere non ha niente di ludico, né di sensuale ma sia direttamente espressione di abuso e violenza (“avevo deciso di violentare mia sorella”).[4] Un pur vacuo e inconsistente pensiero che sta per accingersi a fare una cosa sbagliata, forse, sembra venirgli quando in maniera altrettanto frenetica osserva “Era proprio un peccato che avessi in mente di violentarla”, ma quella che avrebbe potuto essere una lucida preoccupazione, viene presto soppiantata dalla spietatezza del progetto mentale. Nella raccolta ci sono anche ragazzini che barattano per pochi soldi un’altra ragazzina che è praticamente una prostituta in miniatura, se non una vera e propria ninfomane. Nel racconto “Conversazione con l’uomo nell’armadio”[5] l’autore contribuisce a consacrare uno di quelli che saranno i suoi tòpos dominanti (il tema dell’infanzia e il difficile rapporto col tempo) nella figura di un ragazzino che, cullato e represso per troppo tempo dalla spossante madre, non riesce a crescere e a trovare una sua dimensione nel mondo preferendo la protezione di un armadio nel quale si rintanerà per sopperire alle sue mancanze relazionali e sociali, alla simbolica ricerca di un ritorno al ventre materno.
L’autore è lucidissimo in questi racconti nel descrivere con minuzia chirurgica, direi quasi geometrica, le rappresentazione di una vita degradata, vissuta nell’oblio dove gli elementi scatologici (sangue, pipì, moccolo, mestruo, sperma) finiscono per rappresentare il principale elemento equoreo a legare devianze e promiscuità di vario tipo.
Non ci sono elementi palpabili nei racconti per cogliere messaggi di sdegno dinanzi a determinate circostanze, denuncia di atteggiamenti e dunque una inclinazione moralistica in qualche modo disapprovante e recriminatoria. Neppure nell’incesto del protagonista di “Fatto in casa” con la sorella Connie, di dieci anni, ciò avviene e l’autore ci consegna il racconto come una sorta di resoconto delle inquietudini del ragazzino per il raggiungimento del mondo degli adulti. La separazione dalla sfera infantile a quella matura si compie attraverso l’utilizzo del proprio sesso: il rapporto incestuoso del protagonista con la sorella Connie è dunque un nefando rito di passaggio che ha validità in una dimensione claustrofilica e spersonalizzante, dove l’ordine, il rispetto e soprattutto l’istituto familiare, da mancanze pesanti, finiscono per tramutarsi nelle cause di tutto.
Giovani annegati in un fiume (“L’ultimo giorno d’estate”), amplessi veri sul palco di un teatro (“Cocker a teatro”) o in condizioni igieniche deprecabili (“Primo amore ultimi riti”)[6], sesso con un manichino (“Morta venendo”) rapporti pedofilici consumati (“Farfalle”, uno dei racconti pi incriminati dalla critica) o latenti (“Fra le lenzuola”), travestimenti e cambi di identità indotti con la forza (“Travestimenti”), misoginia, sadismo e bondage con evirazione finale (“Pornografia”) e ancora, immagini che l’io narrante osserva sempre con particolare predilezione nei riguardi della dimensione carnale, fisica, scatologica come la donna che si spoglia, si spreme il seno e riempie una bottiglia di latte nel racconto “L’ultimo giorno d’estate” che desta stupore anche nell’innocuo narratore: “Era strano guardare Kate che si mungeva in una bottiglia”. Il gatto che viene arrostito da ragazzini violenti di un sobborgo è ulteriore immagine di questa infanzia turbata e negata dove mancano riferimenti da seguire, centri attrattivi di coesione che possano educare e formare in senso sano e, di contro, l’adozione di misure violente, sconsiderate, contro natura, sadiche e illegali. Se un ragazzino ha la spietatezza di arrostire un gatto ancora vivo legato a un palo, non resta che chiedersi cosa potrà fare una volta entrato nell’età matura.
Come già accennato, nel momento della pubblicazione di questi primi lavori la critica si spaccò essenzialmente in due anche se è giusto osservare che furono di più quelli che attaccarono l’autore per la crudezza della sua narrativa e, cosa ancor più grave, per la mancanza di una presa di posizione, un giudizio ammonente nei confronti delle sue tante creature deviate. Cosa che nel tempo ha sempre rifiutato dicendosi disinteressato a fornire un insegnamento morale attraverso le sue scritture, insegnamento che, invece, dovrebbe essere il lettore ad elaborare e a costruire. L’etichetta di Ian Macabre che poi venne coniata dalla critica recensionista nell’occasione della pubblicazione dei suoi primi romanzi (Il giardino di cemento del 1978 e Cortesie per gli ospiti del 1981) che in realtà proseguono la sua precedente attività (contenutisticamente e strutturalmente, essendo romanzi brevi, quasi dei racconti lunghi) è probabilmente la sua carta d’identità più conosciuta dalla quale nel tempo ha cercato a suo modo di smarcarsi. Se è vero che l’autore non ha mai preso nettamente le distanze dalla sua prima produzione catalogandola in un esperimento giovanile, quindi atipico e non determinante nella sua nuova caratura letteraria, è anche vero che in termini recenti si è potuto comprendere forse con maggior evidenza le ragioni che l’hanno portato alla trattazione di determinate tematiche. Ragioni che vanno ricercate in fattori endogeni (ambiente sociale) ed esogeni (ambiente interno: la famiglia) dei quali meglio si è discusso nei miei saggi precedenti dove, pure, è l’autore stesso a rimarcare l’influenza decisiva che determinati autori quali Henry Miller, Norman Mailer, Nabokov, Philip Roth ed altri hanno avuto nel suo percorso di scrittura.
Connaturatamene presente nelle opere giovanili è quel desiderio dissacrante di spiazzare, di riscrivere la storia in poche singole azioni che sopraggiungono improvvise e non ipotizzabili, di offrire squarci grotteschi, lampi allucinanti che svelano complicazioni della mente e non di rado immettono in un deprivante e deprimente clima psicotico. Non è facile dire se l’intenzione fosse architettata e dunque strettamente studiata e voluta dallo stesso autore ossia se lo shock era funzionale o meno a una critica spasmodica e quindi andava più che bene trattare di cose morbose se queste avrebbero avuto un eco di grancassa atto a consentire una maggiore conoscenza dell’autore o addirittura la sua affermazione.
In un articolo dell’Agosto 2015 intitolato “When I was a monster” finalmente l’autore ha affrontato direttamente la questione che spesso ha costituito elemento di dibattito e di disaccordo tra critici e commentatori della sua opera sostenendo che le sue short stories iniziali, pur avendo un sostrato dark piuttosto marcato, erano da lui state pensate per fornire anche una sorta di visione umoristica di determinati accadimenti: “I also thought elements in them were hilarious”.[7]
I quasi quaranta anni che separano l’oggi da quel passato di scanzonato esordiente hanno prodotto nel Nostro “a bound to have a different view”. Il riconoscere oggi che nei suoi primi racconti ci fosse qualcosa di ilare è una constatazione che proviene da un uomo che nella sua ampia carriera ha saputo rivedersi, maturare temi e interessarsi di molte altre questioni. L’autore nello stesso articolo-intervista non manca di osservare come la creazione delle sue storie iniziali non fosse altro che il frutto di un’insaziabile fame di fiction, cioè di invenzione. Se è vero che ha simulato molte delle storie e dunque elaborato mentalmente determinate vicissitudini, va senz’altro osservato, però, che è riuscito a calarsi in quelle realtà con una grande capacità visiva e un profonda conoscenza del mondo del disagio.
L’invenzione allora è, come lo stesso osserva, la strada da percorrere per chi ha bisogno di libertà e dunque di svincolarsi da quella società austera, da quella famiglia perbenista e dall’educazione rigorosa. La scrittura per il nostro equivale dunque al consapevole sorpasso di un limite che all’uomo civile è richiesto di non compiere, ed i suoi racconti sono concretamente, sotto questi punti di vista, attacchi duri alle convenzionalità dell’epoca se non delle vere e proprie sfide. Compiute astutamente, con l’arte della scrittura, nella fiction, stando ben attento a non far mai confluire l’universo dell’invenzione con quello della vita umana in un connubio risultante in un’unità. Ciò non solo avrebbe avuto esiti pericolosi nel dipingere certe aberrazioni senza prenderne le distanze, ma avrebbe significato anche allo stesso autore accuse di incitamento all’odio, alla violenza e quant’altro.
Per concludere è giusto osservare che, come ogni buon narratore, McEwan non ha mai misconosciuto o minimizzato l’importanza delle sue prime opere nella sua futura carriera di scrittore perché, se da una parte è vero che gli costarono pesanti critiche che lo avrebbero bollato negativamente anche negli anni a venire, dall’altra parte gli consentì di venire allo scoperto, farsi conoscere ed apprezzare (seppur da pochi) e intraprendere la sua carriera narrativa che poi l’avrebbe condotto a grandi successi e riconoscimenti internazionali.
Ancora una volta è interesse dell’autore ricordare a distanza di tempo che la sua prima produzione breve era volutamente improntata a una scevra consegna di realtà difficili nelle quali il narratore non aveva nessun interesse o finalità nel promuovere un messaggio educativo, pedagogico e, per dirla in una parola, morale.[8] Ciò che la critica ha letto come grave mancanza in realtà è stata una libera scelta del giovane autore: far parlare ed agire i propri personaggi senza l’intervento di enti o azioni atti a perseguire l’educazione, la formazione, la salvaguardia sociale o attività giudiziarie e sanzionatorie a condanna delle malefatte commesse e a difesa del bene comune. Proprio come spesso, purtroppo, molti casi di violenza avvengono: ben distanti dai mezzi di comunicazione, all’ombra degli enti preposti all’ordine e nel disinteresse generale. Ed è per questo che ciò che narra ha il sapore di qualcosa di estremamente reale.
Written by Lorenzo Spurio
Note
[1] Tratto dal racconto “Conversazione con l’uomo nell’armadio”, racconto della raccolta Primo amore, ultimi riti.
[2] Si rimanda a queste pubblicazioni:
Lorenzo Spurio, Ian McEwan: sesso e perversione, Photocity, Pozzuoli, 2014.
Lorenzo Spurio, Il sangue, no. L’aporia della vita ne ‘La ballata di Adam Henry’ di Ian McEwan, PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2015.
[3] La tesi, dal titolo “Comportamenti devianti e spazi claustrofobici nella scrittura di McEwan” è stata discussa alla Facoltà di Lettere e Filosofia della Università degli Studi di Perugia nel 2011 avendo quale relatore la professoressa Francesca Montesperelli. Parti della stessa sono confluite nei due saggi sopra citati.
[4] Tratto dal racconto “Fatto in casa”, primo racconto della raccolta Primo amore, ultimi riti.
[5] Si legga nota in esergo al presente saggio.
[6] Il narratore dipinge la scena in maniera vischiosa e assai conturbante: “Facevamo l’amore durante le copiose e facili mestruazioni di Sissel, contenti, appiccicosi e rossicci di sangue”. L’attenzione per i fluidi corporali e il loro impiego preoccupante sono delle costanti nell’opera del Nostro dove tutto ciò che è scatologico è rilevante nel rendere le scene nella loro corporeità e concretezza. Qualcosa di simile avviene nella scena dell’uccisione di un topo incinta che ha riportato uno squarcio sull’addome dal quale fuoriesce la sacca amniotica. Il narratore, impavido dinanzi alla scena, non solo è in grado di descriverla con minuziosità, ma di intervenire direttamente macchiandosene le mani: “Aprì lo squarcio con due dita, spinse dentro il sacchetto e vi chiuse sopra la pelliccia macchiata di sangue”. Altro esempio si ha nel racconto “Fra le lenzuola” dove, dopo la grande eccitazione che ha cercato in maniera contrastante di dominare verso l’amica di sua figlia, il narratore ci descrive l’uomo nell’inconsistente atto di orinare con la solita doviziosa resa di questi momenti: “Mentre pisciava il fiotto si divise in due. Lui tirò un po’ il prepuzio e il getto si unificò” (“Fra le lenzuola”).
[7] “Ian McEwan: When I was a Monster”, «The Guardian», 28 August 2015. I riferimenti successivi sono tratti dal medesimo articolo.
[8] “It was difficult for me then, and would be even more difficult now, to persuade readers thta my intentions were actually moral. My amoral firs-person narrators especially were supposed to be condemning themselves out of their own mouths. I thought it was more interesting for the author not to intervene”.