Le mie ossa

Creato il 08 novembre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da monicamazzitelli su novembre 8, 2011

di Giulia Fazzi

a P.V.

Un pomeriggio la signora che abitava al primo piano aveva alzato lo sguardo in alto, dal marciapiede sul lato opposto della strada, e si era accorta che i gerani e le margherite dell’appartamento della ragazza erano morti, rinsecchiti, i rami superstiti piegati all’ingiù. Che strano, aveva pensato, la mano sulla fronte a ripararsi dal sole. Era rimasta un po’ a guardare il balcone dell’ultimo piano e le piante morte. Strano perché la ragazza si prendeva sempre molta cura di quelle piante, l’aveva vista tante volte occupata a innaffiarle, togliere le foglie secche, pulire i sottovasi.
Mi aveva messo addosso una brutta sensazione, aveva detto la signora in quelle appassionate chiacchiere con gli altri abitanti del palazzo, quando già il corpo della povera ragazza era stato chiuso nella bara di metallo e portato via dalla polizia mortuaria, l’appartamento era stato sigillato, e si era finalmente fermato l’andirivieni di polizia e vigili.
Non avevano tolto gli occhi di dosso alla bara mentre passava da un piano all’altro, da un pianerottolo all’altro, loro, i vicini, gli occhi fissi sul coperchio lucido, mani strette sulle bocche, teste che dicevano no, non è possibile, qualcuno si era fatto il segno della croce, qualcun altro non aveva retto e aveva abbassato lo sguardo sul pavimento e aveva visto solo i piedi degli addetti infilati in copriscarpe bianchi.
La puzza li aveva tormentati per settimane. Due volte avevano chiamato lo spurgo per far svuotare i pozzi neri e per due volte era venuta una ditta specializzata in disinfestazioni, ma quella puzza non se ne andava, non si capiva cosa fosse e da dove venisse, non se ne andava, si infilava sotto le porte, faceva arricciare il naso di quelli che entravano; si era attaccata alle pareti.

Lei era lì, stesa sul divano. Al chiuso, al buio. Tutto chiuso, sigillato, fermo, spento. I fiori morti sul balcone, il cellulare lasciato sul tavolo che un po’ alla volta si era scaricato e si era spento, le uniche telefonate in memoria erano quelle del suo responsabile al lavoro e del padrone di casa, due mesi prima.
Poi non ti hanno più cercata. Non si sono preoccupati per te.
Ci aveva pensato, una volta. Com’è quando nessuno si preoccupa per te? Quando non hai nessuno al mondo che sta in pensiero per te? Che sta con il fiato sospeso fino a quando non sa che sei tornata a casa sana e salva?
Ma ora cosa importa. Le mie ossa sono sul divano, mi sono scarnificata sul divano, il telefono non ha squillato, nessuno a casa ha pensato aspetta che adesso chiamo Elena, che è un po’ che non la sento.
A casa.
Aspetta che la chiamo, è un po’ che non la sento.

Nella penombra dell’appartamento non riusciva a vedere bene, ma c’era quella puzza, gesù quella puzza orrenda che gli stava entrando nel cervello e non se ne sarebbe mai andata, ma nemmeno quella puzza avrebbe potuto prepararlo all’orribile visione di quel corpo scarnificato sul divano, disteso sui cuscini come per un sonnellino, pietrificato, il cranio nudo e i capelli sparsi intorno. Aveva soffocato un urlo e si era precipitato fuori, sul pianerottolo, chinandosi sulle ginocchia a riprendere fiato. Pensando, quella ragazza. Quella ragazza con la quale aveva firmato il contratto d’affitto poco più di un anno prima, quella ragazza che pagava regolarmente ogni mese tranne gli ultimi tre, quella ragazza che non sentiva mai, non si lamentava mai, a suo tempo non gli aveva fatto nessuna particolare impressione, non lo aveva colpito, non era né bella né brutta, aveva solo sperato che fosse regolare con l’affitto, che non combinasse guai in casa sua e così era stato, quella ragazza era l’inquilina perfetta, e adesso quella ragazza non c’era più, il corpo dell’inquilina perfetta giaceva putrefatto sul divano.
Quella ragazza.
Sola. Lontana da casa.

A un certo punto aveva smesso di andare al lavoro e non era più uscita di casa. Era sparita da un giorno all’altro, non si era più presentata. Il suo responsabile l’aveva cercata più volte al telefono senza ottenere risposta, poi si era dovuto rivolgere alla sede centrale perché mandassero qualcuno a sostituirla. Era già giugno. Faceva caldo.
Se fa così non le rinnoveranno il contratto, dicevano le colleghe. Magari la chiamiamo, sentiamo un po’ che cosa le è successo, le chiediamo se vuole venire alla cena.
Ma poi non l’avevano chiamata, non l’avevano invitata alla cena, non ci avevano più pensato fino a quando non avevano letto di lei sul giornale, una mattina di settembre.
Morta. Da tre mesi. Sul divano dell’appartamento in affitto. Il telefono spento sul tavolo. I fiori morti sul balcone. I vicini. Il padrone di casa sconvolto.
Perché, tu sapevi che abitava in centro? Sapevi che era siciliana? Ma non aveva detto di essere nata in Svizzera?

Non li riconosci i segni. Non sono incisioni sulla pelle, cicatrici sul volto. Non li vedi. Si nascondono dietro un sorriso tirato, a una parola taciuta, dietro a mani strette, chiuse a pugno, dita che stringono troppo forte. Occhi terrorizzati. Cos’era, panico? Ogni volta che al lavoro le veniva affidata una mansione diversa, le veniva il panico.
Invece che chiedere aiuto aveva alzato muri. Questo pensavano di lei.
Questo aveva fatto l’ultima volta al telefono con mamma.
Sì, sto bene, al lavoro tutto bene.
Ottocento chilometri tra loro, rumori di sottofondo, e muri che si alzavano, mattone su mattone, domande che erano rimaste appese al filo, parole che erano rimaste incagliate nella gola.
No, non ci torno giù.
Non vengo a fare finta che non sia successo niente.
Non torno a fare la bella statuina.
Non torno per sentirmi dire le solite bugie. Non ho più dieci anni, grazie a Dio.
Grazie a Dio.
Era giugno.

Era giugno e c’era troppo caldo in quell’appartamento all’ultimo piano. Nemmeno di notte riusciva a tirare il fiato. Aveva comprato un ventilatore che si trascinava da una stanza all’altra negli interminabili fine settimana. Quei sabati e domeniche infiniti, stesa sul divano a osservare lo scorrere del tempo sul soffitto, la variazione di luci e ombre, luci e ombre, luci e ombre, fino a quando il buio non l’avvolgeva e l’unico rumore che sentiva era quello del ventilatore.
Non sarebbe sopravvissuta a un’altra estate lì dentro. Così aveva deciso. Non aveva premeditato niente di particolare, solo prendere tutte le pillole rimaste nella boccetta, sdraiarsi sul divano e aspettare. Aspettare di addormentarsi, mentre il tempo sulla sua testa continuava a scorrere. Aveva sentito i vicini rincasare a una certa ora. Voci alte, televisione, musica. Poi il silenzio. Non l’aveva nemmeno sfiorata l’idea che ci sarebbero voluti tre mesi per trovarla, che sarebbe diventata un mucchio decomposto di ossa, che le sarebbero caduti i capelli. Non le importava niente.

Non cercatemi, non salvatemi. Non ha importanza, fa lo stesso. Mettete le mie ossa dove vi pare. Fa lo stesso, davvero.

Non cercatemi, non salvatemi, diceva il biglietto che trovarono infilato nel vaso di margherite morte sul balcone.

[immagine di Monica Mazzitelli]


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