“L’agente Roger aveva visto Flics la sera prima in tv e immaginava che gli accadessero le stesse cose. Gli piaceva inventare trame pericolose con sparatorie e inseguimenti che a Deauville non si sarebbero mai visti. Quella donna però era morta per davvero e sembrava terrificantemente reale. Il suo primo impulso, prima di cominciare a tremare, fu di correre. Non sopportava la vista del sangue e tanto meno quella di un cadavere, specialmente se donna. Specialmente se le avevano fatto male. E si capiva a prima vista che a quella ragazza, prima di ucciderla, dovevano averle fatto parecchio male”.
Le mie ultime parole di Inés Clemanceau è ispirato a una storia vera. L’inchiesta poliziesca sugli omicidi di una
serie di giovani donne nella Bassa Normandia negli anni Settanta è il pretesto per creare uno scenario di grande forza evocativa. Inés Clemanceau sa come raccontare. La sua forza è nell’efficacia dell’intreccio, nella essenzialità dello stile e soprattutto nello spessore psicologico dei suoi personaggi e dei legami che si intessono tra loro.La gendarmeria è tenuta in scacco dai delitti sempre più efferati e tra gli abitanti dei villaggi aumenta la paura e il sospetto. La Clemenceau riesce a insinuare nell’atmosfera quotidiana una sensazione di sempre maggiore inquietudine e dall’apparente semplicità delle situazioni nasce una forte empatia verso il protagonista, il comandante Ribeiro, che conquista a poco a poco il lettore insieme al suo assistente stagista Bazin.
Ma è attraverso gli occhi della figlia adolescente di Ribeiro che assistiamo alle crescenti difficoltà incontrate nelle indagini. La successione dei delitti mette in scacco il comandante, che, disorientato dall’apparente mancanza di moventi, si trova ad affrontare il silenzio della popolazione, dovuto a legami familiari che sono legami di sangue in senso letterale.
“La nebbia danzava sulla superficie dell’acqua. Sotto era notte fonda. Astrid affondava nel fango ed era congelata. C’era una creatura là sotto che strideva con l’ambiente circostante. Era la quarta. Continuerà a ucciderle, pensò mentre raggiungeva la bicicletta”.
Astrid, muta dalla nascita, simboleggia, proprio nell’assenza della parola, l’innocenza al di fuori delle regole sociali del linguaggio. Sarà lei, con la sua immediatezza e grande capacità di osservazione, a portare alla luce i rapporti distruttivi e antichi che collegano gli abitanti dei villaggi. Sullo sfondo di una provincia oscura e violenta, la ragazza sente che “un delinquente assomiglia al suo crimine dopo averlo commesso perché a quel punto comincia a ospitarlo dentro di sé”.
Dietro ogni parola intuiamo la corruzione e l’ambiguità legata agli abusi silenziosi che si inseguono nelle pagine. L’azione si svolge all’interno di un perimetro ridotto, in questa zona densa di acquitrini e di sentieri fangosi, l’autrice ci spinge sempre più in un mondo claustrofobico, dove tutto sembra decomporsi lentamente.
Inés Clemanceau è nata a Firenze 28 anni fa, da padre francese e madre italiana. Si è laureata in Storia e ha conseguito una specializzazione in Antropologia Culturale all’Università la Sapienza di Roma su simboli e strutture della parentela. L’argomento della sua tesi di specializzazione è il nucleo attorno al quale si sviluppa questo suo primo romanzo. Attualmente lavora in un call-center a Milano. Questo è il suo primo romanzo ed è ancora inedito.
Con questo post Cronache Letterarie inaugura una rubrica di critica on demand per autori ed editori. Se siete interessati cliccate qui.