Le mire saudite dietro l’attivismo salafita in Siria

Creato il 18 luglio 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

La sfida per l’egemonia regionale tra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita wahhabita (sunnita) si sta progressivamente estendendo dal territorio iracheno a quello siriano dove, seppur ancora in maniera velata, Riyadh vuole giocare un ruolo da protagonista. L’Arabia Saudita, alle prese con un periodo di precari equilibri interni, vuole cercare di sfruttare a proprio vantaggio i disordini siriani; per questo motivo ha da tempo iniziato a sostenere i ribelli organizzati intorno all’Esercito Libero Siriano (FSA), ma, al tempo stesso, ha fornito armamenti e appoggio finanziario ai gruppi di combattenti salafiti provenienti dal confine iracheno e dal vicino Libano. Nelle ultime settimane proprio queste cellule si sono rese protagoniste di diversi attacchi compiuti sul suolo siriano, creando imbarazzi a Riyadh ma anche a Washington dove ora iniziano a temere un effetto boomerang.

Gli equilibri interni sauditi e le relazioni con i sunniti libanesi

L’Arabia Saudita sta attraversando un periodo molto delicato in cui oltre a dover affrontare le sempre maggiori richieste di riforma interna, placate attraverso un cospicuo aumento dei sussidi (tra dicembre 2011 e gennaio 2012 circa 100 miliardi di dollari) destinati ai sudditi, si trova alle prese con una difficile situazione che coinvolge direttamente la dinastia, dove equilibri già precari si sono aggravati con la morte, il 16 giugno, del principe Naif bin Abdulaziz, storico Ministro dell’Interno (dal 1975 al 2011) ed erede designato al trono dall’attuale sovrano re Abdullah Ibn Abdel-Aziz. Conosciuto come il membro della famiglia reale più vicino agli ambienti wahhabiti, Naif bin Abdulaziz deteneva il controllo delle forze di sicurezza saudite, compresa la potente polizia segreta, ed era stato il reale artefice delle politiche saudite in Yemen e in Bahrein.

Ai sensi dell’articolo 5 dello statuto del Regno spetta ora a re Abdullah il compito di nominare l’erede al trono; una scelta che troverà poi una conferma, prettamente formale, del Consiglio di Fedeltà; il Consiglio di Fedeltà è un organismo istituito nel 2006 e composto da 35 membri della famiglia reale volto a creare un consenso intorno alle scelte del monarca1. Il timore maggiore è quello che si ripropongano vecchie faide e lotte interne alla famiglia minando così gli equilibri di potere di un regno che si trova ad affrontare una delicata fase di transizione.
Sullo sfondo vi è però un ulteriore pericolo che lega l’Arabia Saudita ad altre monarchie del Golfo, come il Bahrein, ossia le crescenti mire iraniane sul governo iracheno; l’Iraq rappresenta un Paese cruciale perché rappresenta la porta verso il Golfo e la sua posizione geografica ha per anni rappresentato un solido cuscinetto alle mire degli Ayatollah.

L’Iran prova a proporsi come modello per il giovane governo iracheno guidato dallo sciita Nuri al-Mālikī, che in passato scappò dal regime di Saddam Hussein trovando rifugio proprio in Iran. Ciò rappresenta una grave sconfitta per la dinastia saudita nella lotta per l’egemonia regionale. La situazione irachena, con il sopravvento della comunità sciita sulla componente sunnita vicina a Riyadh, ha aperto una profonda crisi all’interno dell’universo sunnita, di cui l’Arabia Saudita si sente storicamente protettrice e baluardo, convincendo le autorità saudite a passare al contrattacco aumentando il proprio sostegno all’opposizione siriana.

L’intento saudita è quello di riuscire a rovesciare il regime degli Asad sferrando così un duro colpo all’Iran che ha nella Siria il suo alleato geo-politicamente più prezioso; per questo Riyadh, con l’assenso di Ankara e Washington, avrebbe da tempo cominciato a sostenere apertamente i ribelli armati che combattono contro il regime siriano2. Fin dai primi giorni successivi allo scoppio delle rivolte, la principale forza di opposizione siriana è organizzata nell’Esercito Libero Siriano (FSA), forza irregolare sunnita, le cui roccaforti sono le città siriane di Homs e Hama, e nelle cui fila si sarebbero arruolati da tempo anche diversi sunniti libanesi reclutati, ovvero finanziati, proprio dall’Arabia Saudita3. Molti degli aiuti forniti dall’Arabia Saudita andrebbero all’organizzazione libanese Movimento del Futuro (al-Mustaqbal) guidato dall’ex Primo Ministro Saad al-Hariri (figlio del più famoso Rafiq al-Hariri) e collegato al Al-Jama’a Al-Islamiyya, movimento libanese vicino ai Fratelli Musulmani4.

Attraverso l’utilizzo delle vecchie rotte usate per il contrabbando nella valle di Bekaa, il FSA ha goduto fino a questo momento di ingenti forniture non solo di armi, ma anche di cibo, medicinali, acqua e strumenti determinanti a garantire la comunicazione tra i diversi gruppi d’opposizione al regime siriano. Oltre a fornire assistenza finanziaria, i sauditi possono dare ai militanti legittimità e motivazioni dal punto di vista ideologico sfruttando proprio il crescente e diffuso timore delle diverse comunità sunnite in tutto il Medio Oriente, sconcertate dalle denunce di continui massacri che gli uomini di Asad compirebbero nei confronti della popolazione civile siriana.

Il difficile processo di riabilitazione degli ex jihadisti

Tra i molti combattenti ribelli che in questi mesi hanno intrapreso diverse azioni di ritorsione contro il regime siriano e più in generale contro la comunità alawita, ramo dello sciismo a cui appartengono i membri della famiglia Asad e dell’establishment di potere, vi sono diversi jihadisti salafiti. La Salafiyyah è un movimento modernistico islamico nato a metà Ottocento il cui termine richiama l’era imperfettibile degli antenati pii (appunto i salaf); il movimento, che ha avuto in Muḥammad ‛Abduh, Giamāl ad-Dīn al-Afghānī e Rashīd Riḍā i suoi principali teorici, mirava ad islamizzare la modernità attraverso il recupero dell’antica purezza delle origini5. Il salafismo è progressivamente evoluto passando da movimento riformista a movimento radicale nel corso del XX secolo attraverso la crescente influenza della corrente wahhabita; non tutti i salafiti sono jihadisti, ma tutti i jihadisti richiamano l’interpretazione rigorosa dei testi promossa dal salafismo.

Al momento diversi jihadisti si trovano in territorio siriano o nel vicino Libano; l’elemento di raccordo sarebbe costituito dal gruppo libanese guidato da Saad al-Hariri che da tempo ha sviluppato relazioni sempre più strette con diversi movimenti salafiti che, nell’ottica di Riyadh, dovrebbero diventare una forza di contrasto alle milizie sciite libanesi di Hezbollah6. All’interno dei gruppi salafiti vi sono molti jihadisti, veri e propri mercenari, che durante gli ultimi anni hanno operato azioni di guerriglia e attacchi terroristici in Iraq, anche contro militari nordamericani, ma soprattutto molti di loro hanno in passato combattuto proprio contro il regime saudita.

Alcuni sono discendenti della profonda frattura che colpì l’Arabia Saudita nel 1991, quando decise di concedere ai militari nordamericani di calpestare il suolo sacro (in territorio saudita si trovano Mecca e Medina, i due luoghi sacri dell’Islam); in quel contesto mosse i suoi primi passi anche Osama bin Laden. Tuttavia, a seguito del 11 settembre 2001, l’Arabia Saudita ha promosso, di comune accordo con le autorità religiose, un processo di correzione e riabilitazione della componente salafita cercando di allontanarla dal concetto di “jihadismo” per riavvicinarla a quello di “jihad”. Il “jihadismo” è un’ideologia adottata dai movimenti radicali islamici nel corso del XX secolo che fonda le proprie radici nella concezione aggressiva di jihad proposta da Ibn Taymiyya7; il jihadismo, che ha in Sayyid Qutb e Al-Mawdudi i suoi principali teorici moderni, considera solamente l’uso della lotta armata come mezzo per rovesciare i governi laici e sostituirli con forme di Stato islamico autentiche in cui vi sia la cieca osservanza del dettato coranico, compresa l’applicazione integrale della Shari’ah.

Il concetto di jihad (sforzo) invece, come esplicitato in molteplici sure coraniche, rimanda essenzialmente ad un uso della forza della ragione, che porti il singolo individuo all’osservanza dei precetti islamici; il jihad più importante e difficile non è quello rivolto contro qualcuno, sia esso infedele o cattivo musulmano, ma quello interiore che ogni buon musulmano persegue quotidianamente8. Nessuno Stato musulmano si opporrebbe all’applicazione del jihad. L’Arabia Saudita nel difficile percorso volto a riabilitare molti ex combattenti jihadisti ha promosso, con l’avallo delle autorità clericali wahhabite, la tesi per cui attori non statali non possano intraprendere alcuna jihad di loro iniziativa, in quanto una tale chiamata spetta solo ed esclusivamente ad autorità statali o religiose riconosciute dallo Stato9. Se tradizionalmente le forze jihadiste erano solite vedere come principale minaccia l’Occidente e i governi considerati asserviti ad esso, per Riyadh, a maggior ragione in questo delicato momento, il pericolo principale proviene dallo sciismo.

Il timore dell’effetto boomerang

È tuttavia vero che al momento il regno saudita, come già avvenuto in passato, non ha ufficialmente preso alcuna posizione nei riguardi di un eventuale jihad o guerra diretta contro la Siria; una scelta dettata dall’ulteriore imbarazzo che una tale posizione creerebbe nelle relazioni con gli Stati Uniti. Nelle ultime settimane vi sono stati molteplici interventi sui media nazionali (radio, giornali, Tv) di eminenti ulama e sceicchi, compresa una recente fatwa emessa da un membro del Consiglio Supremo Religioso del regno, volti a interdire qualsiasi forma di jihad in Siria o in altri Paesi senza che vi sia stato prima un qualche consenso statale10.

Dichiarazioni resesi necessarie dopo i molti video comparsi sul web a partire dai primi di febbraio, in cui il leader di al-Qaida, Ayman al-Zawahiri, ha esortato i musulmani sauditi a ribellarsi contro il governo di Riyadh, seguendo l’esempio di quanto fatto dai loro “fratelli” siriani, tunisini, egiziani e yemeniti. Già in passato l’Arabia Saudita ha dovuto affrontare il problema del controllo di queste forze, incarico affidato al servizio di intelligence saudita (General Intelligence Presidency) il quale si è dimostrato in grado di operare nella distribuzione di finanziamenti e armamenti ma incapace di controllarne il loro successivo utilizzo. Manca un organismo maturo ed efficiente come il MOIS iraniano, Ministero di Intelligence e Sicurezza, in grado di gestire a distanze le operazioni dei propri corpi d’élite o di gruppi armati affiliati e il più delle volte da esso addestrati. L’Arabia Saudita già in passato ha operato soprattutto grazie al sostegno di altri apparati di intelligence, come per esempio l’ISI (Inter-Services Intelligence), branca dell’intelligence pakistana, sfruttata da Riyadh nel contesto afghano11.

Timori di innescare un processo del tutto fuori controllo sono stati espressi, seppur timidamente, anche da Washington, dove sono ben consapevoli che l’assenza nell’apparato governativo saudita di un solido organismo di controllo sui combattenti jihadisti, potrebbe rivelarsi un pericolosissimo “boomerang”. Nonostante tra i corridoi del Pentagono siano restii nel dare il proprio assenso ad operazioni di combattenti jihadisti in territorio siriano, i molti attacchi delle ultime settimane hanno dimostrato che qualcosa sottotraccia a Riyadh hanno già deciso.
Per l’Arabia Saudita il contesto siriano e la caduta del regime degli Asad è vista sempre più come battaglia per la propria sicurezza nazionale in virtù anche del fatto che la fiducia nell’alleato storico, gli Stati Uniti, è gradualmente venuta meno a seguito della caduta di Mubarak in Egitto e del ritiro delle truppe dall’Iraq, ritiro che ha consegnato il Paese nelle mani sciite.

Conclusione
Combattenti animati ideologicamente e da principi di stampo religioso rappresentano nell’ottica saudita un elemento fondamentale per la propria sopravvivenza. Tuttavia, ciò che più spaventa gli Stati Uniti è la consapevolezza che storicamente l’uso di combattenti jihadisti ha creato ulteriori problemi sia interni che esterni al regno saudita e una tale eventualità oggi, in un periodo di instabilità e debolezza, potrebbe portare all’indebolimento del potere della dinastia dei Saud, aprendo definitivamente le porte ad una pericolosa egemonia regionale dell’Iran.


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