Magazine Cultura
Un'isola meticcia: Geografia di una frontiera
di Alfonso Stiglitz
Fonte: Bollettino di Archeologia on line I 2010/ Volume speciale A / A3 / 3
www.archeologia.beniculturali.it/pages/pubblicazioni.html
D(is) m(anibus)/ Urseti Nispeni/ni coniugi / b(ene) m(e)r(enti) / f(ecit) (fig. 1). In un qualche anno del I d.C. nella piana del Tirso tra Borore e Macomer (Sardegna centro-occidentale) sullo sfondo dei contrafforti dell’altopiano degli Iliensi, Nispeni affidò l’amato coniuge, Urseti, agli Dei Mani. L’epitaffio, per la
sua collocazione geografica e per l’onomastica, ci mostra le tante sfaccettature che i termini “confini” e “frontiera” possono assumere, se li si usa in un’accezione che non si limiti, come troppo spesso avviene, all’ambito fisico ma si estenda al complesso dei significati, comprendendo quello che, superando la visione etnica,
possiamo indicare come incontro tra culture. Una testimonianza, quella del cippo in questione, che vuole segnare la presa di distanza netta dalla visione marcatamente dualista di una Sardegna divisa tra una Romània civilizzata, alfabetizzata, planiziale e una Barbària analfabeta, resistente e montanara, l’un contro l’altra armate, fino alla presa di potere della superiore civiltà romana, come gli antichi autori coloniali ci hanno tramandato. Uno scontro di civiltà nel quale a soccombere furono quei “Sardi”, ovviamente pelliti, barbari (anzi barbaricini), che abitavano in caverne, non seminavano le terre seminabili e depredavano gli altri (Strabone V, 2, 7), vivendo “senza pensieri e travagli, contenti dei cibi semplici” (Diod. Sic., V, 15, 5), secondo lo strumentario del bravo etnologo colonialista che isola alcuni caratteri stereotipati. Una visione nella quale i protagonisti della straordinaria civiltà nuragica sarebbero stati travolti dall’abbrutimento psicofisico trasformandosi nei barbari abitanti le caverne e nella quale la plurisecolare presenza fenicia sarebbe scomparsa nel nulla. Il dibattito in Sardegna può trovare uno dei momenti più alti nel bel lavoro di A. Mastino che si muove nell’ambito del modello resistenziale di Lilliu, come si può notare nel titolo con l’indugiare su termini certamente suggestivi ma, a parere di chi scrive, anacronistici quali analfabetismo e resistenza. Il primo, analfabetismo, potrebbe più utilmente essere sostituito con “pluralità di codici” sulla scorta delle analisi dell’antropologo sardo Michelangelo Pira. Il secondo, resistenza, da interpretare meglio con “la diversificazione della società sarda” di età romana, sulla scorta di un altro maestro, Yvon Thebert. A questi maestri aggiungo lo straordinario testo di Giovanni Tore sull’artigianato lapideo sulla cui scia si muove questo lavoro. Il territorio oggetto di indagine è l’Oristanese, in particolare lo spazio delineato dal principale fiume sardo, il Tirso, un’area a elevata intensità di incontri sin da epoca molto antica e, probabilmente, quella a maggiore densità di insediamenti dell’isola, da quelli nuragici dell’età del Bronzo e del Ferro, a quelli fenici e romani con una pluralità di spazi urbani senza confronto nel resto della Sardegna. L’area è ricca di risorse potenziali nella costa e nell’entroterra. Sono presenti interessanti giacimenti metalliferi di Ferro, Argento e Piombo e terreni utili per una pluralità di coltivazioni, da quelle cerealicole a quelle pregiate, non ultima la vitivinicoltura, che i risultati degli scavi di Duos nuraghes di Borore (non distante dalla tomba di Urseti del nostro incipit) ci permettono di retrodatarla
quantomeno al Bronzo finale. Un altro elemento fondamentale per gli scopi di questo lavoro è il ruolo dell’urbanizzazione e il rapporto città/campagna, che vede per la prima volta in Sardegna la divisione del territorio tra spazi centrali, urbani e spazi periferici rurali; tale distinzione non era presente, in questi termini, in età nuragica, quando non vediamo sostanziali differenze nell’organizzazione territoriale, negli aspetti culturali ed economici tra l’area interna e quella costiera. Il cambio radicale avviene nell’VIII a.C. con il formarsi delle città di Tharros e Othoca e, probabilmente Neapolis, che provoca la fine irreversibile dell’organizzazione territoriale nuragica, la creazione di una gerarchizzazione spaziale non più locale, come nel sistema delle torri nuragiche, ma estesa ad ambiti più ampi.
Nell’età romana il processo di urbanizzazione giunge alla sua massima espressione coinvolgendo sia l’ambito costiero, con la rivitalizzazione degli antichi centri fenici sia quello interno con la fondazione di centri dal carattere urbano, sin nella profonda Sardegna interna, come mostrano i centri di Aquae Hypsitanae poi Forum Traiani (Fordongianus), Augustis (Austis), Sorabile (Fonni), per citarne solo alcuni nell’area oggetto di questo intervento. Urbanizzazione che porta con se la riorganizzazione del territorio, la sua “geometrizzazione” funzionale agli scopi coloniali, la realizzazione di una fitta rete stradale che ingloba ogni porzione di questo spazio geografico e i rapporti conflittuali con le comunità presenti, sia in ambito costiero (rivolta delle comunità puniche), sia in quello più interno (rivolte degli Ilienses, Balari e Corsi) (fig. 2).
A fronte di una sostanziale omogeneità dell’età del Bronzo, che va pian piano articolandosi in varie direzioni nelle quali si evidenziano percorsi diversi e segmentazioni sociali più marcate ben visibili nel Bronzo finale e nel Primo Ferro, l’impatto con il fenomeno urbano di tipo coloniale sembra produca una “disintegrazione” di questa unità e la formazione di nuovi gruppi che comunemente vengono chiamati con termine equivoco “etnie” e che gli antichi chiamavano in modo altrettanto equivoco “popoli”, ma la cui identità sembra essere più il frutto della necessità coloniale di ripartire il territorio per meglio controllarlo. Da questo punto di vista preferisco utilizzare i termini più neutri di “comunità” e “componenti”; in tal senso anche la formazione degli etnici sembra il frutto di questo processo più che la volontà di una autorappresentazione. In questo breve contributo ci si limita a cartografare gli indicatori di confine, perché è ancorando i fenomeni culturali allo spazio nel quale sono avvenuti, oltre che al tempo, che si può affrontare concretamente il problema delle Civitates Barbariae, traendole fuori dal limbo metafisico nel quale veleggiano. In primo luogo i toponimi, che indicano luoghi di passaggio tra realtà distinte quali il Marghine e il Barigadu (fig. 3). Il Marghine è una vasta regione storica sulla riva destra del Tirso; il suo nome, che significa margine, indica una sorta di barriera visiva, i contrafforti della Campeda, ma anche una regione di passaggio tra territori geograficamente diversi, quali la piana del Tirso e il Logudoro nella Sardegna settentrionale.
L’attestazione del nome è medievale e indica chiaramente un punto di confine; la sua antichità è confermata da due toponimi di origine punica, oggi evidenziati dal nome del più grande centro urbano di questa regione, Macomer, storicamente connesso con i toponimi punici maqom her / maqom misa: la loro interpretazione, il primo come “luogo dell’uscita” e il secondo come “luogo della regione montuosa”, confermano il ruolo e la percezione di questo spazio che si aveva già in epoca molto antica. Il Barigadu è, invece, una regione storica posta sulla riva sinistra del corso d’acqua. Il nome viene interpretato come “varcato, oltrepassato”, cioè al di là del Tirso a sottolineare il ruolo di punto di passaggio lungo una via di penetrazione le cui tracce possiamo rilevare già in età nuragica, dovuta al più grande fiume della Sardegna. A questi toponimi si aggiungono i veri e propri cippi di confine, uno dei quali proprio nel Marghine. Si tratta della nota iscrizione latina incisa sull’architrave del nuraghe Àidu èntos (Bortigali), nella quale viene indicato il posizionamento del confine del territorio degli Iliensi (fig. 4). L’iscrizione, del I d.C., indica il riconoscimento dei diritti giuridici, storici e culturali di questa popolazione su un territorio di vitale importanza strategica, con l’inserimento originale e non di mera assimilazione di un gruppo, di probabile discendenza nuragica, in grado di gestire il proprio destino non solo con la forza, come mostrano le ripetute rivolte, ma anche con consapevoli
attività politiche. Stupiscono in questo senso, le affermazioni di Lidio Gasperini secondo il quale l’iscrizione fu “fatta apporre sull’ingresso della fortezza nuragica dai Romani, più per le loro stesse necessità di controllo, che per gli occupanti, probabilmente analfabeti o, comunque, non in grado di gestire l’idioma e, men che meno, il codice scrittorio dei dominatori”: Gasperini 1992a, 305–306. Una lettura evidentemente mediata dalla visione degli autori coloniali latini per i quali gli “indigeni” sono di per se incapaci di adattarsi alla civiltà. Sulla sponda opposta del fiume Tirso, più a ovest, a circa 25 km in linea d’aria, il territorio di Orotelli ha restituito un cippo che riporta la scritta Fin(es) Nurr(itanorum) con la chiara indicazione del territorio di pertinenza della comunità dei Nurritani, noti anche per aver dato origine a una cohors dell’esercito romano. Più a sud di questo, a circa 20 km in linea d’aria, dal territorio di Fonni sede di un importante centro romano, Sorabile, pro-viene un cippo con l’indicazione Celes( ) su una faccia e Cusin(?) sull’altra; si ritiene che si tratti del segno di confine tra il territorio di due comunità una delle quali potrebbe essere identificata con i Celsitani di Tolomeo (III, 6) e collocata nell’area del Barigadu-Mandrolisai. I territori della seconda comunità si estenderebbero invece verso oriente.
La dislocazione geografica dei toponimi e dei cippi di confine ci mostra con chiarezza la distribuzione delle varie comunità occupanti questo territorio nella piena età romana, restituendo concretezza fisica e dignità storica a questi gruppi. La carta di distribuzione conferma l’affermazione di Pausania che indicava il Tirso come confine tra i Troiani e i Barbari (Paus. X, 17, 6). L’esatta interpretazione di questo passo ci permette di chiarire meglio l’esistenza di una pluralità di identità complesse nel territorio, non più rinchiudibili nella definizione, ad alta valenza politico-ideologica, di Barbagia, come luogo primitivo di conservatorismo totale. In Pausania è chiara, infatti, la distinzione tra i troiani (secondo la sua interpretazione del nome Iliensi) e i Barbari, in altre parole gli Iliensi sono considerati cosa distinta dalle Civitates Barbariae. Alla distribuzione geografica degli etnici si affianca un altro tipo di documentazione, quella onomastica, che ci permette di avere un quadro più ampio della complessa realtà di queste comunità che, lungi dal mostrarsi chiuse e resistenti a ogni contatto, ci hanno restituito, nella piena età romana, una situazione identitaria dinamica e articolata. La diffusione di alcuni indicatori ci mostra il permanere di una componente punica della Sarditas che resterà vitale fino alla piena età romana imperiale, non solo in ambito urbano ma anche rurale (fig. 5). Questa componente è, ovviamente, legata alla complessa e lunga storia della colonizzazione fenicia della Sardegna, i cui primi insediamenti stabili possono datarsi all’VIII a.C., e di cui l’oristanese è punto nevralgico. In piena età romana, verosimilmente tra I e II d.C., la componente di tradizione punica è testimoniata da una pluralità di indicatori contenuti nei cippi funerari, la cui lettura non sempre è agevole. In primo luogo la presenza dei simboli betilici, raffigurazione di alto valore ideologico, di cui due sono stati rinvenuti a Sedilo, sulla riva destra del Tirso. Il primo, nel quale è evidente il riferimento a questa simbologia, è un cippo con sommità a vaschetta, sulla cui faccia principale sono raffigurati tre betili e nelle due laterali decorazioni a losanga (fig. 6a) con un richiamo abbastanza palese alle pitture funerarie puniche, si vedano gli esempi dalla necropoli di Tuvixeddu- Tuvumannu di Cagliari e alle produzioni lapidee dei tophet sardi.
Il secondo esemplare con la tipica forma a capannina di questi cinerari ha sulla fronte (fig. 6b), al di sotto di un timpano, cinque betili. A questi due si può accostare un concio in trachite proveniente di Samugheo (fig. 6c), sulla riva sinistra del Tirso, e identificato come “tempio pentastilo con estradosso a botte”; non pare del tutto fuori luogo, invece, l’accostamento con la rappresentazione betilica, magari in un ambito che non ha più del tutto chiari i riferimenti alla tradizione più antica (vedi il trattamento simil tempietto); la presenza sull’altro lato del concio di un crescente lunare rafforza questa lettura. A questi reperti possono essere accostati anche due cippi provenienti da Sedilo, che richiamano la tipologia punica della stele a davanzale, riletta come cinerario, con vaschetta superiore. Questa tipologia è presente nel confinante territorio di Aidomaggiore, con un esemplare di datazione più alta, III sec. a.C. e sul quale è un’iscrizione in caratteri punici con il nome Wgc , riportato alla “persistenza di un forte sostrato paleosardo nell’antroponimia durante il dominio punico e romano dell’isola”. Sempre dalla stessa località proviene un’iscrizione funeraria latina di alcuni secoli più recente contenente un nome, Qdabinel, che è il palese adattamento del punico kbdcln , presente anche in nord africa nella forma Cabdolonis e varianti. Sempre nel campo dell’onomastica relativa a questa componente punica della Sarditas è importante la testimonianza di Ula Tirso, sulla riva sinistra del Tirso, dirimpetto ai precedenti territori, dove è stata rinvenuta un’iscrizione romana di I d.C. contenente il patronimico Osurbali (Asdrubale) che deriva dal nome punico czrbcl
;
interessante notare che il figlio di Osurbali, Asadisio, abbia un nome probabilmente di origine locale. É possibile che a questa tradizione culturale di matrice punica possa essere attribuito anche un complesso di cippi funerari in pietra con raffigurazione umana, provenienti dall’oristanese e dalla Sardegna centro-settentrionale. Nell’area oggetto di questo intervento possono richiamarsi i cippi antropoidi da Sedilo e Bortigali. In particolare quello di Sedilo, purtroppo definitivamente scomparso, è costituito da una lastra alta m 1,48 sulla cui faccia anteriore è risparmiato, in alto, un viso e più in basso è incisa una parola, Foronto, di non chiara attribuzione, per la quale si è ipotizzato di vedere il nome del defunto al nominativo o, in alternativa, quello di una divinità locale; questa attribuzione parrebbe rinforzata dalla resa del volto con lo schema a T, ritenuto di tradizione nuragica (fig. 7a). Un secondo cippo di tipologia simile, ma anepigrafe, proviene dal vicino territorio di Bortigali (fig. 7b-c); la funzione di coperchio di cinerario a cassetta quadrangolare in pietra e il contesto di rinvenimento sembrano riportare all’ambito cronologico qui considerato.
La tipologia e il contesto di Bortigali richiamano componenti punicizzate, legate al vicino centro di Macomer e alla via di penetrazione del Tirso che ricollega l’area con Tharros. Essi si inseriscono in un complesso corpus di stele funerarie con raffigurazione umana, diffuse principalmente nell’oristanese ma anche nel Marghine come mostrano gli esempi di Bolotana, Scano Montiferro e Mulargia. Alla componente di origine punica si affianca quella dei Sardi di origine libica, testimoniata in questo caso da un complesso di iscrizioni funerarie di età imperiale, diffuse in modo particolare nella nostra zona; i nomi attestati sono quelli di Ginsora, da Macomer, nel Marghine e, nel Barigadu quelli di Gauga, Miriacora, Tumar, da Busachi, Tubmar e Tamucar da Samugheo. Questa componente potrebbe ricollegarsi alle più antiche immissioni operate da Cartagine, da riconoscersi nei sardo-libici testimoniati già nel V a.C. e ai quali, probabilmente, apparteneva Hampsicora. L’onomastica ci può permettere di dare un volto a un altro gruppo, traendolo dalla nebbia ideologica e per il quale mi pare più opportuno la definizione di Sardi di origine nuragica, evitando l’anacronistica espressione “paleosardo”, per il semplice motivo che all’epoca erano vivi e per niente “paleo”, per niente residui di un tempo che fu, ma attori, partecipi in prima persona dei notevoli cambiamenti culturali in corso. Per l’area oggetto di questo lavoro l’elenco è lungo e per alcuni di essi permane l’incertezza sull’effettiva pertinenza a questa componente. A nord del Tirso, nel Marghine, sono attestati i nomi di Semmudi e Urelio, a Macomer; nell’altopiano tra i contrafforti del Marghine e la riva destra del Tirso i nomi Nercau ad Aidomaggiore e Sedilo; Urseti ad Aidomaggiore e Macomer; Nispeni a Macomer; Cariti a Borore e, infine, Foronto a Sedilo, qualora lo si intenda come nome di persona e non di divinità. A sud del Tirso ritroviamo il nome Nercau ad Allai, Samugheo e Austis; Asadiso a Ula Tirso, Beviranus a Busachi, Cariti a Fordongianus al quale è da accostare Kariti da Busachi e Carini (?) da
Samugheo, Caturonus ad Austis, Etunus a Busachi, Gocaras da Allai, Ietoccor da Busachi, Monioriti da Ula Tirso, Nispelli da Ula Tirso, Targuro, da Busachi, Torbenius da Busachi e Ula Tirso al quale può essere accostato Torvenius da Busachi, Torceri da Busachi, Turi da Busachi (fig. 8). La diffusione territoriale di alcuni di questi nomi permette un’ulteriore riflessione; se, ad esempio, ci riferiamo al nome Nercau, notiamo la sua presenza a Borore, Aidomaggiore e Sedilo sulla riva destra del Tirso e ad Allai, Austis e Samugheo su quella sinistra; medesima distribuzione del nome Cariti presente a Borore, Fordongianus, Busachi e Samugheo (fig. 9).
Da questi esempi appare chiara la trasversalità geografica di questi nomi, suggerendo come, verosimilmente, i gruppi che vivevano al di qua e di là del fiume, di cui per ora sono noti l’etnico di Ilienses sulla riva destra e di Celsitani su quella sinistra, non siano etnicamente e linguisticamente distinti ma siano, più concretamente, da riferire a divisioni di ambito amministrativo, politico ed
economico.
Possiamo aggiungere che per alcuni dei cippi può essere avanzato un possibile riferimento a tradizioni più antiche, “letture dovute probabilmente ad alterità culturale”, come nel caso degli esemplari a capannina con resa degli occhi incisi a cerchiello e del naso a T. La suggestione è forte e credo meriti di essere approfondita, soprattutto a partire dagli occhi a compasso di un cippo da Sedilo (fig. 10a), la cui impressionante somiglianza con la resa di quelli della statuaria nuragica di Monti Pramma di Cabras (fig. 10b), databile a un epoca non posteriore all’VIII a.C., desta una certa curiosità e ci indirizza verso il permanere di tradizioni artigianali nuragiche tramandate nel tempo pur all’interno di modalità espressive ormai completamente e naturalmente diverse; in quest’ottica non senza significato pare il cognomen del defunto cui è dedicato il cippo, Nercau, appartenente a questa serie onomastica sarda di origine nuragica, che rafforza l’impressione del convergere nel cippo in questione di linguaggi diversi ma non separati, espressione di un gruppo portatore di una cultura caratterizzata dalla molteplicità di identità in reciproco dialogo.
Nel caso specifico del nostro defunto i tria nomina, Quintus Volusius Nercau, oltre a chiarirne lo status giuridico e il ruolo sociale esemplificano la complessità dell’identità di questa comunità sarda di età romana. Identità fortemente dinamiche nell’attraversare le componenti etniche come attestano i nomi romani dei figli di padri dal chiaro nome sardo di origine nuragica, vedi il caso di Cariti di Borore che dà il nome Valerius al figlio, o di Tamucar, sardo di origine libica da Samugheo, che dà al figlio un nome romano, Senecio, o il caso inverso di P. Manlius di Austis che al figlio dà il nome Nercaus.
La presenza di nomi sardi di origine nuragica nelle iscrizioni latine di quest’area potrebbe indicare l’emergere di elites all’interno della società tradizionale isolana in grado di utilizzare anche altri codici di comunicazione diversi da quelli consueti, quali la scrittura e la lingua latina ad esempio, per obbligo, perché utili all’ascesa sociale o per adesione volontaria a quei codici, senza per questo rescindere totalmente il legame con i precedenti.
Il permanere di alcuni di questi nomi per il millennio successivo, mi riferisco soprattutto a quelli presenti nelle famiglie dell’elite altogiudicale (Nispella, Ithocor, Urseccur ecc.) indica una progressiva partecipazione di questi gruppi alle strutture di potere: sono, probabilmente quelli più attrezzati ad affrontare i cambiamenti che avvengono con la fine del sistema organizzativo latifondistico dell’impero romano e che sono all’origine del sistema economico-sociale giudicale. Queste iscrizioni ci
indicano in sostanza, l’inizio del processo. Questo rapido esame di alcuni indicatori culturali, al quale andrebbe collegato quello della distribuzione territoriale degli insediamenti e delle caratteristiche artigianali della cultura materiale, ci permette di impostare su nuove basi l’analisi della complessa realtà identitaria della Sardegna di età romana. Un processo che vede l’articolazione delle comunità e la loro vitalità e non può più essere compreso alla luce del vecchio strumentario etnologico nel quale la manifesta presenza di componenti culturali altre rispetto a quella romana veniva interpretata nei termini di sopravvivenza e di sostrato, quasi che si trattasse di relitti di culture ormai esaurite. Al contrario siamo in presenza di comunità dinamiche che, sebbene provate dai lunghi anni della repressione violenta, partecipano attivamente ai nuovi tempi senza rinunciare alle proprie affiliazioni, senza rinchiudersi in “riserve indiane” resistenti. Affiliazioni non statiche ma capaci di condividere le proprie esperienze con i propri vicini consapevoli di essere portatori di una molteplicità di identità, che è poi la natura di quella che è stata definita la Sarditas di età romana, di cui abbiamo cercato di delineare sinteticamente le varie sfumature. Il fine di questa ricerca, ancora lunga, è quello di dare un volto a quelle donne e uomini, certamente Sardi, qualunque fosse la loro provenienza originaria, sicuramente non barbari ma portatori di un reticolo di identità culturali, esattamente come i Sardi attuali, ognuno dotato di quella che Amartya Sen ha chiamato la “natura plurale delle nostre identità”, che l’analisi sul terreno può molto faticosamente definire e che si esprime con diversi i codici di comunicazione, compreso l’affidarsi agli Dei mani come fa Nispeni di Macomer quando perde il marito.
Abbreviazioni
ILSard. = SOTGIU G., 1961, Iscrizioni Latine della Sardegna (supplemento al Corpus Inscriptionum Latinarum, X e all’Ephemeris Epigraphica, VIII), I. Padova.
AE = L’Année épigraphique.
CIL = Corpus Inscriptionum Latinarum, Berlin 1863 ss.
EE = Ephemeris Epigraphica. Corporis inscriptionum latinarum supplementum, Roma 1872-1913.
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