Magazine Diario personale
Quando lavoravo in provincia di Caserta, nelle rare occasioni in cui avevo tempo libero, me ne andavo sul lungomare a correre un po'.
Correre era una parola grossa (ok... lo è anche adesso, per gli stronzi che lo hanno pensato), non sapevo idea cosa fosse il running tanto meno il triathlon.
Comunque, già assaporavo i piaceri della fatica.
Ogni volta che andavo incrociavo il locale boss, anch'egli intento a sudare con scarpette e calzoncini.
Nel mio immaginario romantico, chi cerca uno sport di fatica, chi adatta il proprio corpo a stress fisici, deve per forza avere qualche forza interiore che lo rende virtuoso sotto vari punti di vista.
Non riuscivo a comprendere come una persona che provasse la fatica e la successiva euforia derivanti dalla corsa potesse poi compiere gesti abietti.
Una volta, incrociando per caso il tizio ad un bar durante un caffè, qualche dubbio cominciò a sciogliersi.
"Marescià, lo sapete perchè me ne vag' a corre tutti i giorni?" mi disse chiudendo pollice ed indice a cerchio ed infilandoci dentro il dito dell'altra mano "Perchè m'agg' accuort' che aropp' fotto meglio..."
Ecco, quando parlavo di motivazioni, ne immaginavo altre più nobili...
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