“Era una notte incantevole, una di quelle notti che ci sono solo se si è giovani, gentile lettore”.
Qualche anno fa, dovendo scrivere un articolo sulla “notte bianca”, ovvero l’iniziativa comune alle grandi città di organizzare eventi culturali durante l’arco di una nottata, mi sono imbattuta nell’origine del termine. E così, nella mia infinita ignoranza, alla quale cerco sempre di porre rimedio sebbene con scarsi risultati, ho appreso che la denominazione deriva da un romanzo giovanile di Fëdor Dostoevskij, pubblicato per la prima volta nel 1848. Il titolo si riferisce al periodo dell’anno in cui in Russia del nord, inclusa la zona di San Pietroburgo, dove il romanzo è ambientato, il sole, a causa del fenomeno della rifrazione, tramonta dopo le 22 e ne illumina le notti.
“Le notti bianche” è un romanzo breve – appena un centinaio di pagine – considerato “sentimentale”, in cui appaiono molti dei temi fondamentali che caratterizzeranno l’intera opera dello scrittore russo, nato a Mosca nel 1821 e morto proprio a San Pietroburgo nel 1881. L’edizione alla quale mi riferisco è in formato digitale (Rea Edizioni, 2014).
Pensando a Dostoevskij, giungono facilmente alla memoria “Delitto e castigo”, “L’idiota”, “I fratelli Karamazov”; meno invece questo testo breve ma intenso in cui è esternato un tormento. Sì, perché, i romanzieri russi sono sempre così profondamente drammatici nella creazione dei loro personaggi; niente a che fare coi nostri autori contemporanei che magari sono disposti ad ironizzare su un personaggio “sfigato” e a sdrammatizzare un po’.
Certo, non è per fare paragoni, perché proprio non avrebbero nulla a che vedere, piuttosto per spiegare un concetto. Potreste immaginare quella leggerezza di contorno, sana e atta a permettere al lettore di “sopravvivere”, che Baricco infonde al suo mercante di bachi da seta, trasposta nelle tristi vicende che Tolstoj ha pensato per Anna Karenina? Ecco, adesso avete capito cosa intendo.
Disgrazie che si susseguono a “go go”, narrate con il medesimo tono perentorio e altamente drammatico, tanto che più che simpatizzare col personaggio, ne proviamo compassione. In simili frangenti, verrebbe voglia di chiedere una tregua. E così è un po’ anche Dostoevskij in quest’opera, quando parla di un disadattato come fosse un “sognatore”; quando la poesia fa sembrare tutto talmente straordinario da essere, in fondo, reputato “normale”.
“Le notti bianche” ha per protagonista un giovane uomo, di cui non conosciamo il nome,che vive isolato dalla realtà e non ha amicizie. Sebbene viva da otto anni a Pietroburgo, egli non ha instaurato alcun legame. Durante una passeggiata notturna, sul lungofiume, incontra Nesten’ka, una ragazza di diciassette anni che risveglia in lui il sentimento dell’amore. A colpire la ragazza è il suo comportamento impacciato, i suoi discorsi che denotano una certa erudizione. Tanto che i due decidono di rivedersi anche la notte successiva.
Il romanzo si articola in quattro notti, in cui i due giovani si incontrano e si raccontano le loro esperienze. O meglio, Nesten’ka gli parla della sua vita, mentre invece lui rivela il suo mondo di fantasie, particolarmente illusorio.
Tra la seconda e la terza notte, vi è un capitolo che l’autore dedica interamente alla ragazza, la quale ha la capacità di andare più concretamente in profondità, narrando del suo vissuto. Nesten’ka vive con la nonna, una donna anziana e cieca, che per poterla controllare arriva al punto di appuntare, con uno spillo, il proprio vestito a quello della nipote.
Da un anno la ragazza attende il suo amore perduto, ovvero l’inquilino che abitava il “mezzanino” della nonna, e che le aveva chiesto un periodo di attesa. Quando la ragazza si era dichiarata a lui, infatti, egli aveva detto di essere, al momento, troppo povero e di non poterle offrire né promettere nulla.
Trascorso il periodo di attesa, Nesten’ka gli scrive una lettera e, saputo che lui è in città, gli dà un appuntamento per la notte. Lui però non si presenta. Il sognatore, straziato dal pianto di disperazione della ragazza, si fa coraggio e le dichiara il suo amore. Lei decide di dimenticare l’amato e sembra voler dare una possibilità al suo interlocutore, allorquando, la quarta notte, l’uomo che non l’aveva mai dimenticata, ricompare nella vita della ragazza.
Il protagonista capisce che all’amore non si comanda. Che sarebbe tutto inutile. Torna così alla solitudine di quella “tana” da dove era venuto e alla consolazione dei sogni. Al di là dello stile, sobrio ed evocativo di uno degli autori che viene definito il “padre” della letteratura russa, cosa rimane di queste “notti bianche”? Senza dubbio tutta la solitudine e il bisogno dell’essere umano di aprirsi con qualcuno. Un forte desiderio di comunicare. La difficoltà a cambiare le proprie abitudini, per quanto criticabili e deplorevoli esse possano essere.
E la “mazzata” finale, dell’essere riuscito – parlo del protagonista – finalmente ad instaurare un rapporto umano e vederselo sfumare all’improvviso. Il destino non può essere cambiato, nulla può l’uomo. Nonostante la delusione e la missiva pervenuta con le scuse della giovane, la gratitudine ha il sopravvento, e trova espressione nel bellissimo finale: “Sii benedetta per quell’attimo di beatitudine e di felicità che hai donato a un altro cuore solo, riconoscente! Dio mio! Un minuto intero di beatitudine! È forse poco per colmare tutta la vita di un uomo?”.
Written by Cristina Biolcati