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[Le onde] 10. Rainer, el Greco

Creato il 20 maggio 2012 da Spaceoddity
Le onde
di Roberto Oddo
10. Rainer, el Greco
In Hausvogteiplatz c'è una fontana, una fontana qualunque, tonda, monotona e grande, un po' anonima, ma non importa. Kostas e io non siamo neanche riusciti a sederci sulle sue sponde, sebbene nella calda e misteriosa mattina di questo lunedì fossimo già entrambi un po' spossati dai nostri pensieri: due leoni alla resa dei conti per un affronto reciproco coccolato tra le nostre criniere. Ci siamo dati cavallerescamente la mano, e c'era una luce tale nei suoi occhi che ho capito all'improvviso Barbara, il viaggio, la storia di Orfeo che si volta. Rainer sembra fatto apposta per girarsi a guardare nel buio cose che io non individuo neanche, per vederle svanire per sempre mentre io ne comincio appena a scorgere l'ombra.
Quello che ci è passato davanti, però, come se gocciolasse dallo spruzzo della fontana, pur potendo emergere da qualche carsico canale infero franato all'improvviso, non era un fantasma. Aveva odori, un corpo qualsiasi, capitatole con l'estrema indifferenza dell'anonimato, e i capelli neri, ispidi, che sarebbero potuti sembrare corti, accartocciati com'erano intorno al suo volto, simili a fogli sottili devastati dalle fiamme e che solo il caso abbia salvato dalla propria cenere. I pantaloni bianchi o grigi in origine erano chiazzati di giallo davanti; ai lati, lungo le gambe, si riconoscevano chiari segni di escrementi essiccati. Avanzava verso di noi come se ci conoscesse, Rainer aveva il volto teso da un'inclemente pietà che solo l'attitudine a osservare le persone mi permette di non confondere con il semplice disgusto. Io avrei voluto uno specchio per vedermi alle prese con quel segno di una fine imminente e tardiva, con l'impazienza di farla finita, ma temevo di vederla comparire al fianco della mia immagine, nello stesso quadro di cose e di eventi. Passò tra di noi, che ci allontanavamo come se dilatasse da sé lo spazio che ci separava, passò e non ci aveva visto, mentre il nostro silenzio aumentava, costipato in sguardi sfuggenti. Via via che si allontanava, fummo sospinti l'uno all'altro come dalle onde di una nuova diffidenza reciproca, ma riuscimmo a guardare di spalle la miseria che ci aveva attraversato e a metterla a fuoco senza doversi soffermare sul suo volto. Credo che anche lui la vide con me, quella sua mano nodosa e rachitica lasciar cadere un pannolone pieno, ormai incolore. Prendemmo la strada opposta, per non parlarne, credo, anche se, con una voce bassa e roca a me estranea, mi lasciai sfuggire una battuta di cattivo gusto che non ripeterei mai. Fu Kostas a sorprendermi con la sua prontezza di spirito: "Però aveva dei bei baffi." La mia reazione fu un riso nervoso che subito svanì.
Lui annuì con riserbo e mi indicò il telefono - il mio, che squillava una volta tanto a ragione - con la mano, e mi sorrise dicendomi: "Rispondi pure". Qualche passo indietro e un ulteriore sorriso, stavolta più svelto, triste, silenzioso; si è voltato dall'altra parte, come se così potesse garantirmi una maggiore discrezione, ma la sagoma claudicante si vedeva ancora lontano e Kostas scelse una posa di scorcio, non sapendo più dove non guardare.
"Ciao, Sabine", ho detto, e con un gesto automatico coprii la cornetta. Kostas si è girato e nei suoi occhi, che mi erano estranei fino a ieri, vi ho riconosciuto odio sorpresa speranza. Poi è tornato alla sua solitudine, che pochi passi volevano rendere definitiva. La mia, invece, sembrò trovare la freschezza e, per qualche motivo, dell'odore di pelle nuda e lavata, un alibi per rotolarsi tra i fiori.
"Come stai?", le chiedo, senza neanche attendere la sua voce nella cornetta.
"Ciao, Tonio, ma eri tu in metropolitana? Ti ho visto a Mitte, chiamavo e ho pure fatto cenni, ma tu non mi hai sentito... credo. Hai il maglioncino blu, no?"
"Mhm, sì, blu scuro, come ieri. In effetti, sono sceso a Mitte, ma non credo che tu abbia visto proprio me: ho incontrato un amico e sono risalito subito in metro. Ora, sono da un'altra parte."
"Bene. Oggi vai in dipartimento? Mangiamo qualcosa insieme?"
Non sapevo, così temporeggiai: "Non so se devo vedere dei colleghi, in caso ti unisci a noi..."
"No, grazie, trovo folla anche a Friedrichstraße", ma usava un tono gioioso per stemperare il cruccio delle sue parole.
"Beh, dai, allora ci vediamo stasera. Sarò puntualissimo."
Da lontano, avevo visto il volto di Kostas chinarsi, come per un peso eccessivo. Annuiva a qualche passante, a un'improvvisa e insperata libertà. Fu mentre lo chiamavo che ricevetti il messaggio di Gil: stava male, mi chiedeva il favore di andare a casa, per aiutarlo. Ho chiesto a Rainer se potesse accompagnarmi e abbiamo preso la metropolitana insieme. Con piglio professionale, ignorando la telefonata che non si sentiva in diritto di aver orecchiato, mi chiese cos'avesse il mio amico. Non valse a nulla rispondergli che non lo sapevo, che l'avevo visto stanco, che stamattina tornava da fuori come se non avesse dormito, già, ma nulla più, e anche un po' strano, ma questo non c'entrava. Per strada non ci dicemmo nient'altro: una donna bellissima e un lembo di stracci erano passati tra me e lui. Lo sguardo chino nel timore che altri spettri femminili ci dividessero, credo che entrambi pensassimo a Barbara, allora, al suo seno che esplode nell'abito grigio, su di noi, mentre mani lontane e fatate ci fanno prendere il volo, leggeri come sposi, fragili come aquiloni. Non c'erano parole per incontrarsi oltre quei corpi.
Fu il corpo di Gil, sofferente di qualche spasmo a me ignoto, a costringerci a uno sguardo: il mio compagno aveva occhiaie scure e tese, come se l'intero volto fosse in preda a mille lacci tirati da demoni discordi. Kostas si chinò ad auscultarne il petto, fece manovre che non capii, i gesti di uno che finge mentre dovrebbe fare sul serio. Non ebbi tempo di appurarlo, perché mi chiamò la mia matrigna, disse che forse avevo ricevuto una lettera di suo figlio e che, insomma, papà era morto, appena un'ora prima. Disse tante altre cose che non hanno niente a che fare con questa storia e che ormai mi tengo per me. Non avevo fatto in tempo a chiamarlo, a chiedergli qualcosa, dei libri di Andreas che cadevano in chiesa, là a Colonia, dei libri di Andreas che mi avrebbe spedito e io non avrei mai letto. A sentirlo, almeno. Mi congedai da Kostas, dal petto nudo di Gil per terra, che sembrava aver debolmente ripreso a sollevarsi in cerca d'aria nella sua carne.
E, da allora, questo è il mio presente.

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