di Roberto Oddo
11. Il senso delle cose
A Colonia non c'è il mare, e io vengo dal mare, però ci sono le stelle. E una volta ce n'erano anche di più, ma nel frattempo sono morte anche loro, emanano di luce riflessa, che le anime notturne della città si raccoontano di generazione in generazione. E poi c'è il Reno che l'attraversa. Il Reno ch'è un fiume grande grande, dove le stelle si riflettono, con battelli annoiati e sbrigativi che vi navigano su, tra le onde ampie ampie per far galleggiare le stelle, che stentano a raggiungere le rive, sotto le altre stelle là in alto, le stelle che c'erano un tempo e quelle che ci sono anche adesso e un violino che suona per il cielo.
Kostas mi ha accompagnato qui, sotto queste stelle che a Berlino invece non ci sono, perché che passato c'è a Berlino? È una città costruita sulle sue macerie, sui cadaveri di coloro che guardavano il cielo per riconoscere (invano) le stelle. A Colonia ci sono angoli bui e aperti, anfratti scovati solo dal cielo, diceva papà, ma lui non conosceva Berlino, tanto meno le sue notti: ha incontrato Greta in pieno giorno, alla luce di quella stella che trovi dappertutto, sempre là in cielo e appuntata sul divieto di guardarla troppo fissa. Così ha lasciato il mare, il mare che guardi dall'alto, ovunque ti giri, a Erice. Io ero già senza madre, si fa presto a dire del tempo quando il prima è solo per gli altri. Mia madre me la ricordo solo in fotografia, ma la ricordo benissimo e la riconoscerei ovunque, per quei suoi mille scatti tra i fiori o in spiaggia, le fotografie solari che mi mostravano i nonni. Mamma è una variante tra mille immagini, alcune delle quali hanno una data, altre sono una storia che m'invento: ricompongo il suo viso e provo a immaginare quando abbia comprato quell'abito e se era bella o sfrontata come Sabine. Mia madre è una donna che ci fu un tempo e alla quale sono legato dal mare e dal giorno. Certo, le stelle di Colonia sono un'altra cosa. Tutta Colonia è un'altra cosa, qua non c'è il mare, c'è il Reno e un duomo gotico e scuro appena fuori dalla stazione.
Kostas esce e si trova a Bahnhofsvorplatz, come se fosse stato spinto fuori da un getto d'aria forte ma gentile, una pacca amichevole e risoluta sulla spalla. Anche lui viene dal mare, dal levigato alternarsi di bianco e azzurro assolato e sciatto dell'estate greca. Qui ci sono colori di terra, terra che inghiotte la luce, siamo sulla crosta di un pianeta diverso. Chissà se ha guardato così Barbara la prima volta. La gente passa accanto a noi con l'aria di sapere sempre dove andare. Io non lo sapevo e avevo visto Greta un numero sufficiente di volte per dimenticarne il volto. Papà, dopo la mamma, si era tenuto per sé il suo passato e ne aveva scelto e amato uno che non era mio, un passato di nome Greta, per donarlo a un ragazzino che quasi non conosco e che adesso è davanti a me, quello che io non sono, sinceramente commosso. Ha i capelli biondicci, come se se stesse per cambiare colore e il colore più chiaro, quello del giorno e dell'estate, fosse quello destinato a soccombere. L'aria più siciliana che tedesca, i lineamenti sono della madre. Mi porge un saluto imparato a memoria con fatica, in un italiano stentato e poco convinto; guarda con sorpresa Kostas, come se apprendesse qualcosa di nuovo su di me. Li presento l'un l'altro, ma Martin non conosce che il tedesco e Rainer non ne parla una parola. Ci avviamo a piedi a casa loro, in silenzio per strada mando un messaggio a Gil. Come stai? Noi siamo arrivati a Colonia. Mi risponde subito. Meglio grazie, Alejandro è già qui. Mi ha riscritto il tipo della fine del mondo. P.S. Noi chi?
Io e Kostas. Io e Kostas a Colonia, e Barbara a Berlino.
"Come stai?", mi chiede.
E io, che in quel momento lo compatisco e lo odio, rispondo: "Bene. Era Gil, dice che sta meglio, c'è un suo amico, là."
"Dovrebbe andare in ospedale, non mi piace per niente quello che ho visto."
"Glielo dirò", rispondo e vorrei chiudermi nel mio silenzio, ma Martin mi domanda se siamo stanchi, perché ci vuole ancora un po' per arrivare. Ha l'aria di chi non vorrebbe affatto continuare a parlare, ma gli hanno insegnato che deve. Sembra più triste che addolorato e questo un po' mi ferisce perché sul suo volto non vedo ombra né di una ferita appena inferta, né di speranza o serenità per qualche cosa appena finita. La sua sembra piuttosto una tristezza indifferente e inattuale. Sennonché poi mi guarda dritto negli occhi asciutti e vi riconosco la mia solitudine. Sono spinto, più dall'ansia che da una qualche forma di affetto, a chiedergli della madre. Distoglie lo sguardo e, riflettendo, non so se per la lingua o per la risposta, in italiano dice bene, poi indica un punto lontano, con la vaghezza necessaria ai segreti da mantenere, e farfuglia in un misterioso tedesco: "Noi stiamo proprio là." E, anche se là ci potrebbe stare un uomo o una colonia di stelle pronte a prendere ogni forma e raccontare ogni storia, tanto sospeso nell'aria è quel gesto, accolgo la sua intenzione, non le parole o il suggerimento.
"Bisognerebbe ricominciare dal senso delle cose", sospira all'improvviso. Poi capisce che non lo seguo e fa per continuare.
"Sembri un vecchio di ottant'anni", lo interrompo io.
"È alla fine che c'è il senso delle cose. Doveva morire papà perché ci trovassimo a passeggiare insieme."
"Noi non passeggiamo insieme. Facciamo la stessa strada per andare da lui."
"Non ho colpa, io, per tua madre."
"Nessuno ti attribuisce una colpa che non esiste."
Kostas, che non capisce cosa ci stiamo dicendo, ma coglie comunque il livore nelle nostre voci, sfodera un paio di sospiri di impazienza che infastidiscono Martin anche più di me.
"Che ha il tuo amico? Non posso parlare con mio fratello?"
"Con tuo fratello? Certo... Sai?, Martin, con mia madre è morto anche mio padre allora, non ne ho avuto uno per me, e... Martin, non te la prendere, noi abbiamo in comune le scappatelle dello stesso uomo e niente più."
"Ma queste scappatelle bastano a creare una discreta intimità." Indica Kostas con lo sguardo, come se finalmente lo avesse inquadrato. "E in ogni caso oggi ti sono bastate per prendere il treno e venire fin qui."
"Era comunque colui che mi ha generato nel grembo di mia madre, ma non mi ha cresciuto, l'ho incontrato giusto qualche volta negli ultimi anni." Lo fisso in volto. "E le ultime tre visite era con tua madre o con te."
Si ferma all'improvviso: "Me lo racconterai dopo, fra un po' siamo arrivati. Dillo a Kostas, e spiegagli quello che succede, io non ho segreti con te." E mi accorgo che è vero. Bisognerebbe ricominciare dal senso delle cose. Però non lo capisco.
"Martin, qual è il senso delle cose? Voglio ripartire anch'io."
"Lascia perdere" e prosegue nel silenzio per un indirizzo che conosce solo lui.
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