Magazine Cinema
di Roberto Oddo
13. La risacca
La sera scorre nel silenzio, tranne un sms puntualissimo di Barbara che risuona a lungo in me. Kostas scende a fare un giro nei dintorni, pensa che non tornerà più a Colonia, ma nessuno fa domande su di lui. Io mando un rapido messaggio a Sabine per spiegarle l'accaduto e scusarmi di non averla avvisata prima. Spero non abbia preparato niente di particolare per me, o magari sì, ma che almeno non lo dedichi a nessun altro. Di fatto non mi risponde subito, tuttavia dopo un'ora leggo sul mio display: Ci dispiace per tuo padre. Verso le otto Kolstas citofona e mi dice di scendere. Con un cenno del capo dico a Greta che sto per tornare, lei mi risponde con un sospiro di assenso e forse di sollievo. Scendo a piedi per tutti i quattro piani e, una volta giù, mi trovo il mio amico con un piccolo involto in mano. "Per te", dice, e mi porge un panino, lui ne tiene un altro identico, non è la stessa cosa di una cenetta con Sabine, ma ho fame. Mangiamo in silenzio, poi passiamo a prendere una birra e guardarci un po' in giro. Io salgo quasi subito, lui resta fuori. La sera diventa notte con discrezione, mentre Kostas passeggia per Colonia, immagino interpellato di quando in quando da qualche telefonata di Barbara, intenerita e nervosa, come se camminasse sui vetri che dipinge.
Nella notte, quando lui già dorme seduto sul divano, mi avvicino per la prima volta con curiosità allo scaffale dei romanzi di Andreas e ne scorro i titoli. Lo sguardo di Greta segue il mio dito sul dorso di quei libri come chi guardi disegnare per aria qualcosa d'insensato. Estraggo un volume che non conoscevo, il titolo sbalzato su sfondo blu, La risacca. Papà non me l'aveva mai nominato e la curiosità mi spingerebbe a tornare nella stanza del suo ultimo riposo e chiedergliene la ragione, se non mi arrendessi al suo silenzio. Mi seggo, comincio a leggere e so che il tempo e le pagine si assottigliano sotto le mie dita, quando tutto intorno a me comincia a muoversi, il buio della notte è ormai buio del mattino. Solo Kostas, che intanto si è alzato, vede il mio sguardo colpevole mentre, con fare sornione, infilo il romanzo nella borsa, come se me lo fossi portato dietro da Berlino per un'insanabile abitudine alla lettura. Mi saluta e la sua voce è inquieta, mi dice che dobbiamo prepararci ad andare, mi chiede se ci sia tutto, ché poi si parte subito.
Gli rispondo che c'è tutto e mi immergo quasi subito nell'indifferente fretta delle ultime ore, nello sguardo interrogativo di Martin che individua il vuoto nella libreria e mi accusa di non provare dolore. Quando scendiamo da casa (saremo in tutti una ventina), un capannello di persone viene a salutare la donna che prima ha perso l'unico fratello e, dopo pochi giorni, anche il marito. Voci e persone si dileguano subito dal portone o dalla memoria, seguiamo il carro funebre fino alla chiesa: la cerimonia è sobria e soprattutto rapida, del resto mio padre non aveva mai messo piede qui, se si esclude l'altro giorno, quando è stato di Andreas. Il sacerdote, per quel che capisco, fa del suo meglio a mostrare pietà e cordoglio, ma non riesce a celare lo sguardo attonito di chi stia celebrando un funerale tra i marziani.
Nessuno, tranne Martin, si alza a prendere la comunione e nessuno sembra ascoltare le parole conclusive del rito. Fuori dalla chiesa, un applauso inspiegabile accompagna il feretro e rafforza in me l'impressione di essere venuto a spiare dove non ero richiesto. Non c'era un nesso tra me e quel saluto, ma dovevo essere parecchio pallido, se il mio fratellastro e il ragazzo della donna per cui spasimo sono venuti e sorreggermi. Sembra che abbiano parlato molto tra di loro, non so quando, però, né so di che: nessuno dei due mi conosce, in realtà, e loro non si erano mai visti prima. Kostas mi indica il telefono e mi dice che deve andare, arrossisce e sorride quando nomina Barbara e io colgo la furia gelosa di lei nel suo imbarazzo.
"Vengo io con te", mi dice Martin. Annuisco, o qualcosa del genere, e mi disimpegno dalle condoglianze gentilissime di persone sconosciute, mentre Greta mi dà istruzioni per il viaggio: precederemo la salma a Genova per sbrigare le operazioni di imbarco al porto, da lì prenderemo la nave e poi faremo gli ultimi chilometri in macchina fino a Trapani. Così aveva voluto mio padre e così faremo. Sembra che mi affidi suo figlio per accertarsi che io non disattenda le sue indicazioni, ma ormai ho capito che c'è molto più nel desiderio di Martin di accompagnarmi. Kostas mi saluta con gesti affrettati, facendo cenni su un prossimo incontro a Berlino, con l'aria disinvolta e alleggerita di chi finalmente può congedarsi senza dare troppo nell'occhio. Ma posso dire che mi è mancato durante il viaggio? La presenza di Martin si è avvertita solo nel volume dela radio, nelle frequenze che cambiavano suoni e, anche quando ci siamo fermati, sembra sia riuscito a comunicare in silenzio con gli impiegati nelle stazioni di servizio.
All'arrivo, Genova ci regala le ultime fiamme del suo tramonto primaverile, diluite nell'umidità eterea che pesa su di lei. Sostiamo vicino al porto per un attimo: il vento ci sbatte il mare in faccia, "magari domani non partiamo", chiosa Martin finalmente, e mi guarda. Raggiungiamo un alberghetto proprio dietro il porto, un posto senza storia per chi ci viene, come se gli albergatori tenessero in serbo per sé le vicende di nomi che si susseguono ai loro occhi. Fanno eccezione solo quando vedono i nostri documenti, si passano la notizia di quei due ragazzi, uno tedesco e molto più giovane dell'altro, con lo stesso cognome, che dicono di essere fratelli. Mi trattengo a stento dal correggere, fratellastri, tuttavia Martin mi scruta annoiato come se si aspettasse di sentirmelo dire. Gli sorrido, anche se mi rendo conto di quanto questa complicità improvvisa tra di noi debba insosprettire l'operatore alla reception. Questi, d'altra parte, deve avere una rilassata dimestichezza con simili clienti per non farci pesare i suoi sospetti. Ci chiede solo il pagamento in anticipo, "niente di personale, ma qui la gente va e viene".
Ho bisogno di camminare, di vedere il porto annegare in un'oscura marea che ribolle, di bagnarmi d'acqua sporca e salmastra, d'acqua vera, perciò lascio che Martin salga in camera. Lui si volta sulle scale, non so se abbia dimenticato qualcosa o si voglia accertare che io me ne sia andato. Quando torno sui miei passi per uscire dall'albergo, sento i suoi passi affrettati sui gradini e poi lungo il corridoio al piano proprio sopra di noi. Non so se si fermi perché arrivato alla stanza o per riprendere fiato. So solo che ho bisogno d'aria. Sarà che vengo dal mare, ma anche senza saperlo trovo subito la via per andare incontro alle onde e, anche se si fa buio e non è per niente bello qui, mi seggo a prendere il libro da dove l'avevo lasciato e a pensare alla risacca che mi riporta a casa: come se il mio passato, dopo aver allungato la zampa per riprendermi in uno scatto, ora mi trascinasse a sé in un lentissimo e segreto rito di cannibalismo notturno.
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