[Le onde] 4. Origami

Creato il 01 aprile 2012 da Spaceoddity
Le onde
di Roberto Oddo
4. Origami
Vedo le sue mani forti e i suoi occhi verdi: è forte e pronto a costruire un mondo. Ma è Barbara ad attirare la mia attenzione. Sembra che, di quel mondo, non le importi affatto: da lì filtra una noia che non ha neanche il bene di agitarle i capelli, il vestito o che so io. Seduta accanto a lui sorseggia una bevanda di cui le deve interessare ancor meno. I capelli le ondeggiano sulle spalle e sul seno, quasi vogliano risucchiarla nel loro vortice, mentre l'abito grigio scuro lungo fin sotto le ginocchia che la modella contrasta con la sua figura bionda, fresca e sempre pronta com'è a rifuggire l'ardore di un abbraccio. Il giovane tace, temendo di venir risputato in Grecia prima che arrivi io. 
Faccio in tempo a non mostrare di aver letto il loro malessere, entro nel ristorante dall'ingresso laterale, in modo che lei mi veda per prima e possa illuminarsi di gioia. Barbara si alza di scatto nell'istante in cui il bicchiere le cade sul tavolo e lo sguardo di lui si scioglie per un attimo nel liquido che gocciola lungo le gambe della sua ragazza. Non ricordo chi sia il primo a salutarmi, ma in un attimo non ci sono più mura di nuovi mondi, né crepe, a separarli, si ricompongono e sembrano una coppia perfetta. Lei si asciuga, ridendo, fa un segno per dei nuovi tovagliolini al cameriere: il ragazzo viene qui come se ancora non si fosse accorto di quei clienti al suo tavolo. Sorride compito, mi porge una sedia e sparsce.Al suo ritorno, la nostra conversazione non ha ancora superato i convenevoli. Tuttavia Rainer sembra molto a suo agio con il suo sorriso effimero ritagliato nel volto e nelle nostre battute goliardiche. Ride anche della soddisfazione felina di Barbara.
"Hai fatto le ore piccole?", domanda, strizzandomi l'occhio. La guardo senza rispondere. "Dai", incalza, "era bella?"
Rainer ride. Le pone una mano sul capo per avvicinarla e darle un bacio, ma lei si svincola, precipitandosi in quella che le deve apparire una sensazionale mondanità, dopo un esilio troppo lungo. Deluso, lui torna alla sua solitudine sognante, illuminato dalla bella mattinata di Berlino.
Il cameriere, un biondino timido e discreto, torna a portare un solo menu per tutti e tre. Barbara, non lo degna di attenzione, né permette a noi di consultarlo: ci gioca come se volesse modellare il mondo intero e dargli una nuova forma.
"Ho occhiaie così profonde?", chiedo loro. 
"Abbastanza da preoccuparmi, se non c'è una donna di mezzo."
"Sono uscito con Gil, poi."
Annuisce, non so bene se alla sua decisione o a me, poi riprende: "Gil... lo spagnolo?"
"Gil, il mio coinquilino, sì... Il cuoco."
E, mentre sciorino quasi tutto ciò che il mio amico rappresenta per me, passa il cameriere a chiedere in inglese se desideriamo qualcosa. Gli risponde Barbara, in perfetto tedesco, ordinando per tutti e tre, con una sicurezza che non nasce se non dall'indifferenza e dalla consuetudine a entrambi. Kostas mi guarda come per scusarsi, io non so se acquattarmi nell'angolo in cui lei ha liquidato entrambi con la gioia malvagia di chi si gode lo spettacolo del nemico che affoga oppure con la disperazione di chi non vede alcuna via d'accesso a un caldo rifugio, dopo esser scampato alla tempesta.
"Voi come parlate?" domando loro, ostendando una naturalezza insperata in quel voi.
Lei, stupita e forse indignata, si volta di scatto verso di me e risponde in una smorfia complice e silenziosa.
Rainer, che comprende benissimo, si sistema ansioso sulla sedia. Ha l'aria di essere spaventato dall'audacia della donna di cui brama la forza. Così mi rivolgo a lui, per risollevare l'umore e cercarvi qualche sostegno: "Barbara ti ha chiamato Kostas..."
"Io mi chiamo Kostantinos", e sorride, per stemperare la semplicità della sua frase. "Ma lei mi dice che sono un poeta e che Kostas non è nome di poeti germani." La scruta per sapere se il suo italiano sia corretto e sensato.
"Kostantinos... come Kavafis?" azzardo io, cominciando a capire il gioco di Barbara. "Sei un poeta?"
"Come Kavafis, sì.", taglia corto lei, mentre il giovane annuisce, ma precisa: "No, sono infermiere. Ma ho scritto qualcosa." Imbarazzato: "Romanzi..." e distoglie lo sguardo boschivo.
"E Rainer?", incalzo.
"Usa un po' la fantasia, dottore", ironizza Barbara.
Poi, seguendo il suo gioco, azzardo: "Rainer...", e la voce trema un po', "... Maria", e concludo vittorioso: "...Rilke."
"Rilke, sì, lui." C'è una luce in lei, come un riflesso dell'intuizione che mi ha folgorato. "Mi avevano commissionato dei quadretti su vetro sui Sonetti a Orfeo..."
"Sì, è vero, ricordo", mi inserisco bruscamente, pentendomi di aver fatto mostra di vagliare la verità nelle sue parole.
Lei continua come se non fosse stata interrotta: "... e mi è sembrato un modo per sentirmelo più vicino e dargli un posto qui in Germania con me."
Kostas la guarda adorante.
"Ma Rilke era austriaco...", obietto io, incassando l'odio negli occhi del mio rivale.
Lei mi corregge pronta: "È nato a Praga. In ogni caso è il migliore poeta tedesco."
"E come mai parla italiano?", domando a Barbara.
Ma Kostas, che non ci sta ad essere argomento di conversazione, risponde per primo: "Mia madre era veneziana, mio padre l'ha conosciuta a Rimini e l'ha portata con sé a Patrasso. Lì io sono nato e cresciuto."
Quest'uomo, questo ragazzo bello e fiero che mi sfida con lo sguardo, ha l'aria di non avere pace, solo storia dietro di sé.
"Beh," gli sorrido, con aria di sfida. "A me non è andata meglio. Mi chiama Tonio come il personaggio di Mann. E quel che è peggio è che anche mio padre mi chiama così, solo che mio padre ama l'opera..."
"Tu pensi ad altri poeti, pagliaccio", ride Barbara. Ma non mi dà tempo di rispondere, poiché nel frattempo il cameriere arriva e lascia tre piatti freddi al centro del tavolo.
"Siete tutti origami", continua poi Barbara, annoiata, mentre guarda le pietanze come se stesse decidendo ora a chi assegnare ciascuna di esse.
Io e Kostas la guardiamo incerti, stupiti dall'inspiegabile complicità a cui ci costringe. Stende il tovagliolo davanti a sé con il gesto meticoloso, e a lei estraneo, di una perfetta padrona di casa che voglia conservarlo in un cassetto, non apparecchiare la tavola con un cigno di stoffa. Poi si china in avanti e fa scivolare lungo il corpo le braccia, che infine franano nell'avvallamento della gonna tra le sue gambe.
"Siete ritagliati su fogli di molti colori, siete belli entrambi, ma state lì come libri su uno scaffale, siete tutta letteratura, tutte idee. Sembra che viviate sempre vite altrui. Io non sono di carta come voi."
E siede lì, imbronciata e bionda. Il sangue prende a pulsarmi nel corpo e neanch'io mi sento di carta in questa mia carne.

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