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Il secondo lungometraggio di Ami Canaan Mann, figlia del celebre regista Michael Mann (qui in veste di produttore), è un perfetto esempio di quanto sia fondamentale, ai fini del buon esito di una pellicola, una sceneggiatura solida e coerente. Se viene a mancare questa componente fondamentale, infatti, non c’è altra virtù artistica, per quanto raffinata, che possa davvero rimediare all’assenza: il risultato sarà sempre un film con evidenti problemi, lungi dal poter essere considerato riuscito. Del resto, fin dall’epoca dello sviluppo del linguaggio classico registi e produttori di Hollywood si sono accorti di questo dato ineludibile. Tant’è che non capita spesso di imbattersi in un caso come Le paludi della morte, dove le diverse incongruenze della sceneggiatura finiscono per compromettere un film assai suggestivo dal punto di vista della messa in scena e con degli attori in grado di fornire prove di ottimo livello. Generalmente, infatti, quando la sceneggiatura non è all’altezza, la regia e soprattutto il cast ne pagano proporzionalmente le conseguenze.
Presentato in concorso allo scorso festival di Venezia (dove comprensibilmente non fu ben accolto dalla critica internazionale) e ispirato ad eventi realmente accaduti, Le paludi della morte narra la storia di Mike Souder (Sam Worthington) e Brian Heigh (Jeffrey Dean Morgan), due agenti della polizia di Texas City che indagano sulla morte di una minorenne. Nel corso delle indagini, i due si ritrovano coinvolti nelle investigazioni portate avanti dalla ex moglie di Mike, Pam Stall (Jessica Chastain), alle prese con un serial killer che, dopo aver ucciso le vittime, abbandona i loro corpi mutilati nelle “Killing Fields”, le paludi che pur trovandosi a pochi chilometri da Texas City non rientrano nella giurisdizione di Mike e Brian. A causa della lacunosa sceneggiatura dell’esordiente Donald F. Ferrarone, ex agente della DEA (il Dipartimento antidroga degli Stati Uniti) che negli scorsi due decenni ha lavorato come consulente tecnico e produttore associato in alcuni progetti di Michael Mann e Tony Scott, le indagini si sviluppano in modo macchinoso, farraginoso e, in alcuni casi, anche ben poco logico. Fino a rendere le dinamiche della storia, nonché alcuni dialoghi fra i personaggi, difficilmente comprensibili e sostanzialmente irrisolti. Davvero un peccato in quanto, come si accennava in precedenza, Ami Canaan Mann – con alle spalle un lungometraggio (Morning, 2001) e qualche episodio di serie televisive – dimostra di aver talento nel creare le atmosfere adatte (interessanti ad esempio l’uso del paesaggio paludoso o l’affascinante contrasto di colori tra le ambientazioni diurna e notturna) e di possedere delle idee registiche non scontate e piuttosto originali (suggestivi alcuni dettagli e inquadrature strette sui personaggi, così come i fluidi movimenti di macchina a seguire l’azione). In più, Jeffrey Dean Morgan, Sam Worthington, Jessica Chastain e la giovane Chloë Grace Moretz offrono delle interpretazioni convincenti e intense, capaci, insieme alla forza espressiva della regia, di catturare per tutta la durata del film lo spettatore. Lo stesso spettatore, però, costretto ad accumulare progressivamente dubbi sull’evoluzione della trama e che, fino all’ultima inquadratura, spera invano in un colpo di scena finale capace di risolvere logicamente le incongruenze e le contraddizioni dello script. Pubblicato su TaxiDrivers
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