Le parole delle mani

Da Parolesemplici

Alla fine degli anni ’60, noi, figli di operai o artigiani, stavamo studiando più dei nostri padri. Senza accorgerci, c’eravamo innamorati delle mani da lavoro, delle tute da portare nei laboratori (in questa stagione, sulla pelle erano la libertà), del lavoro descritto, più che lavorato. E per aderire all’innamoramento, senza rendercene conto, degli operai di fabbrica, cercavamo l’intercalare smozzicato, le frasi casuali e brevi, le parole piegate a nuovi significati per assonanza, l’uso degli improvvisi, meravigliosi, tecnicismi .

Balestrini, ed ancor più Pasolini avevano aperto una porta da cui entrava aria fresca e vera. Basta odore di polvere, libri consumati di sottolineature, dizionari per arcaismi. Basta vedere la realtà con gli occhi del vecchio intellettuale, era importante parlare tra noi e scrivere come si parlava. Sembrava fosse la svolta dopo il realismo. Una forza che veniva dal fare ed investiva lo scrivere, le parole, con un adattarsi alla fatica, quella vera per noi che, nelle assemblee, nelle sezioni, nei gruppi, non volevamo essere intellettuali. Era la fatica operaia che sporcava e faceva sudare, ma poi star bene. E bastava lavarsi, e pensare diverso, che era quasi riposare e la sera si sarebbe discusso, parlato-ascoltato, davanti ad un bicchiere di vino, con parole e vite che sembravano antiche e nuove di zecca. Non quelle dei nostri padri che ci pareva di conoscere a memoria, ma queste che non raccontavano, sparavano frasi e fumo, s’incazzavano, alzavano la voce e magari un attimo dopo scoppiavano in una risata. Noi vedevamo operai giovani, poco più anziani di noi, eppure già con famiglia, figli. Facevano fatica ad uscire durante la settimana, doveva esserci un motivo, spesso c’erano anche le donne. Si finiva tardi il venerdì, gli altri giorni se ne andavano che noi eravamo ancora a discutere. E sarebbe durato a lungo il parlare, con la loro presenza che restava anche dopo. Sembrava che la realtà fosse nella dissoluzione delle regole imparate, nel lessico semplificato, negli inglesismi delle macchine che assumevano il sapore delle persone.  Al centro c’era il riuscire a comunicare, il sentire, oltre la forma. Volevamo l’orizzontalità tra mestieri diversi: tra chi studiava e scriveva e chi lavorava in fabbrica. Ci pareva, almeno. E se ci guardavano con sospetto, all’inizio, come si sentissero presi in giro, dovevamo essere sinceri perché altrimenti, ci avrebbero massacrati a pedate, non solo virtuali. Eravamo inermi, per capire subito la differenza bastava vedere le nostre mani, niente calli, nessun taglio da sbavature di ferro, unghie pulite. Potevano accoglierci, se si stava zitti a sufficienza, prendendoci per il culo, magari per ricordarci che i nostri padri lavoravano e noi no. Loro aristocrazia operaia, e noi, pur figli di lavoratori, già borghesi. Ma rispettavano il conoscere, la fatica sui libri. Il loro sapere era diverso, faceva nascere cose, aggiustava, mandava avanti questa baracca di paese che sarebbe cambiato, ma solo con coscienza e serietà. Essere bravi sul lavoro era un obbligo e un vanto, per passare da operaio a specializzato, bisognava fare il capolavoro. Proprio così. E la parola ci sembrava appropriata per quel sapere vero, difficile da scrivere sui libri e da far raccontare alle mani. Altro che balle, loro sapevano cosa voleva dire sfruttamento. E noi capivamo che lo sapevano davvero, e sembrava che quell’ingiustizia traslasse, investisse un poco anche noi, fino a farci sentire come bruciava sulla pelle ad ogni ingresso in fabbrica, ad ogni bolletta, ad ogni umiliazione dei capi.

Intanto tra noi, parlando di cose che facevamo finta di conoscere, si teorizzava. In realtà volevamo il linguaggio delle mani, le parole delle mani, non avendolo, partivamo dalle parole che conoscevamo, dai nomi del fare. E capirsi, era dissolvere il costrutto della frase, adattarsi alle mani, uscire dalla malcapita lezione togliattiana dove forma, regola ed ideologia si integravano. O almeno così ci pareva. Presumevamo, perché tra studio, bevute, passioni, non restava molto tempo per approfondire. Però una realtà nuova irrompeva verso l’alto. Rispettare Gramsci e l’obbligo del sapere per criticare non ci sembrava contraddittorio, come pure ripensare l’intellettuale organico. Era dirompente questo usare frasi e piani multipli, come un muoversi di mani che descrivevano, essere sul lavoro e guardarlo, dire ciò che malamente si faceva, con parole semplici, secche e poi metterci dentro i pensieri contemporanei, la ragazza, i soldi che non c’erano mai, il calcio, lo sciopero, le sigarette e di nuovo il pezzo da finire bene perché doveva passare la tolleranza, e non farsi cacciar via dai propri colleghi prima che dal caporeparto. Ero un cane che si sforzava, non avevo possibilità, sbagliavo talmente tanto che, per misericordia, mi spostarono subito in magazzino. Era un’estate di lavoro con il pensiero che sarebbe finita, però finché c’era, tanto valeva approfittarne. Altrove la scuola, la buona facoltà, faceva la differenza, ma lì dentro era un peso. Per questo, si doveva cercare di usare quello che sapevamo: il linguaggio, e mescolarlo con le lingue del lavoro.  Il dialetto l’avevamo sempre adoperato, era la lingua madre. Anche fuori, anche al bar, lo usavano tutti, a cominciare dagli intelligenti, che sapevano quando era ora di essere in sintonia con il posto. Ma noi c’eravamo inventati un essere operaisti, con la lingua, oltre la fatica dell’approfondire, oltre Tronti, per questo eravamo persuasi d’essere dentro un processo vitale di mutamento che spingeva verso il cielo restando orizzontale.

Ci sembrava, ma non era mica vero, solo gli intelligenti veri o i cinici, capivano che sarebbe passata e che altro avrebbe corrotto lingua, frasi, e soprattutto idee e modi di vivere. Sarebbe venuta la terribile consuetudine del terrorismo, i sogni si sarebbero spiaccicati contro i vetri, le pareti rigate di cemento dei palazzi, con scheggie dappertutto e linee ferrate contorte. A noi che sarebbe restato d’una stagione troppo presto conclusa? Molto e nulla, molto era l’esperienza dello sperare assieme, nulla era l’implodere degli anni, il distacco tra un fuoco d’artificio stampato sulla retina ed il sorgere del giorno. Di ogni giorno. Avevamo un lessico da rimettere in ordine, bastava rientrare nei ranghi, in due giorni, due mesi o due anni,  tutto sarebbe andato a posto.  Un gruppetto di incoscienti, sull’orlo della felicità d’essere nel mutamento, ecco chi eravamo.

Per molti non fu così. O forse per pochi.

Era di maggio, quando iniziò.


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