Leggevo le pagine, molto interessanti e suggestive, della Fenomenologia della percezione, in cui Merleau-Ponty accenna alla dimensione corporea che assume, talvolta, la comprensione delle parole. Una corporeità che non riguarda l'atto di proferimento delle parole - il fatto di pronunciarle, l'apparato fonatorio, la loro "consistenza materiale" - bensì l'effetto che esse provocano talora sul corpo.
Quando non si abbia il tempo di decifrare 'intellettualmente' un significato, c'è una sfera di comprensione che afferisce prima di tutto al corpo, di modo che le parole sono percepite fisicamente prima che intese mentalmente. I suoi esempi ricordano parole come "umido", "caldo", "freddo", "rosso", "duro". Prima di tradurle in immagini, in rappresentazioni, esse sono sentite sul corpo. Questi esempi servono a Merleau-Ponty per illustrare il carattere percettivo che assumono, per la coscienza, non solo gli oggetti materiali ma anche quelli che lui definisce oggetti culturali. E questo è uno dei tanti modi di quella presa della coscienza sul mondo che per Merleau-Ponty è anzitutto percezione come nesso di significazione.
Mi è dunque venuta in mente la riflessione, molto lontana per prospettiva e metodo, di Judith Butler sullo hate speech (in Excitable Speech, 1997). Entrambi evocano il nesso particolare che sussiste fra le parole e la dimensione corporea dell'esistenza. Questa dimensione è restituita, per esempio, dalle espressioni ricorrenti del ferire con le parole o colpire allo stomaco quando si riceve un'offesa. Perché, si chiede Butler, si attinge così spesso al campo semantico del dolore fisico per descrivere l'effetto che lo hate speech provoca sulle persone?
Probabilmente, perché il linguaggio ha strettamente a che fare con l'esistenza sociale delle persone. Questo aspetto è restituito dal momento dell'interpellazione. Althusser propone la scena di un poliziotto che chiama un passante "Ehi, tu!". Quel passante deve voltarsi e "assentire" all'appellazione. Interessante è che sia una figura istituzionale a dare un nome, a testimonianza del coinvolgimento del potere nelle dinamiche di assegnazione del nome/esistenza, e che la persona deve voltarsi per riceverlo e riconoscersi in esso. Per Judith Butler, invece, la ricezione del nome - intesa come assegnazione di un'esistenza sociale/linguistica alle persone - non richiede che il destinatario si volti. Il destinatario è superato dalla definizione che lo precede. Il linguaggio lo precede. Così nello hate speech viene meno il riconoscimento sociale, la "sopravvivenza linguistica" dei parlanti. Nelle parole d'odio si mette in discussione la consistenza stessa delle persone.
Tuttavia, Butler sostiene che non vada attribuito al discorso offensivo un tale potere di annullare i soggetti, riducendoli a un niente sociale. L'appellazione testimonia che la persona non ha il controllo sulla sua esistenza linguistica, e che essa si fonda su una sorta di violenza, di 'offesa' originaria del linguaggio, che costituisce i parlanti in quanto intrinsecamente suscettibili di appellazione e in quanto radicalmente dipendenti dal riconoscimento altrui. Ma lo hate speech, che ripete citazionalmente un trauma antico - di odio verso gruppi sociali -, può aprire la via a spazi altri di resistenza linguistica e a istanze altre di riconoscimento, sfruttando quella che Butler chiama la vulnerabilità linguistica. Che consiste in fondo nel fatto che la performatività linguistica - il potere delle parole di "fare quel che dicono" - non è onnipotente e può fallire; i suoi effetti possono superare le intenzioni: i significati non sono mai del tutto univoci e soggetti a quella che Butler chiama "lotta di traduzione". Il tempo del discorso non è il tempo del soggetto, diceva Foucault. Ma forse non è del tutto vero; forse si può mettere mano nelle crepe del linguaggio - nelle sue "falle performative" - per capovolgerne il destino.
E' avvenuto con la parola queer, il cui significato omofobico ed eterosessista ordinario è stato ribaltato in direzione opposta a quella del potere normativo del "discorso ufficiale". E' avvenuto con la parola negro, quando negli anni '30 nacque il movimento della négritude che, nonostante un certo differenzialismo, comunque risemantizzava il carico offensivo di quella parola per opporre al colonizzatore una comune solidarietà negra. Ma poiché è molto interessante, forse è il caso di parlarne meglio in seguito.
C'è qualcosa di fondamentalmente corporeo nel linguaggio; c'è una sfera percettiva del senso comunicato linguisticamente che sarebbe interessante esplorare ancora. Usualmente il linguaggio è riferito alla dimensione intellettuale, alla comprensione mentale, al discorso come afferente alla ragione in contrapposizione al non-discorso che afferirebbe alla sfera del corpo. Eppure, tutti presi dalla res cogitans, dimentichiamo che sperimentiamo spesso quel mobile confondersi dei sensi, intesi sia come significati che come canali percettivi.
PS: quanto allo hate speech, guarda caso poco fa leggevo questo.
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