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Le passioni del diritto: la paura e la speranza

Creato il 26 gennaio 2014 da Dialogosiuris

Il diritto pone continuamente dei limiti. La storia del diritto è la storia dei suoi limiti, a volte cupi, asfissianti, tossici, carichi di precarietà, paura della fine e dell’annientamento; altre volte mutevoli e insicuri; altre ancora con un potenziale arricchente capace di guardare oltre con entusiasmo e con spirito accogliente. Il diritto può chiudere e opprimere, portando il ricordo a esperienze di crudeltà quali quelle delle leggi razziali o contro la vita e la sua dignità, o essere strumento di promozione della persona e della libertà, come la Costituzione repubblicana italiana incessantemente ricorda.

La storia del diritto è anche la storia delle sue passioni, o meglio, delle passioni dell’uomo. Parlare di passioni non significa mobilitare le componenti irrazionali dei comportamenti umani, ma voler ricercare la ricchezza dell’essere proprio razionale dell’uomo. Tale prospettiva, ovviamente non può che riconoscere con onestà il libero apporto di ciascuno per costruire una societas tutta volta all’autotutela e all’emarginazione o piuttosto, una realtà aperta e prospettica che nell’inclusività sappia valorizzare la capacità di inventiva e coinvolgimento. Dal momento che il diritto coinvolge la persona nel suo concreto essere storico con particolare riguardo al suo legame sociale, pensare al diritto in termini di passioni significa quindi interrogarsi sulle sue dinamiche e sulle possibilità che esso offre. In questo senso sono d’augurio le parole del filosofo G.F.W. Hegel, quando osservava che nel mondo nulla di grande è stato fatto senza passione.

Al diritto appartengono due passioni opposte e incomunicabili che si alternano: la paura e la speranza. Sebbene questi due termini siano decisamente estranei al comune e condiviso lessico del diritto, essi rendono immediatamente percepibili e facilitano la comprensione delle principali teorie della giustizia che sono a fondamento delle continue e costanti scelte normative e giurisprudenziali.

La paura scava trincee ed erige muri; la speranza supera gli ostacoli e le apparenti insuperabili limitazioni. Similmente, anche le principali teorie della giustizia conservano al proprio interno una peculiare propensione al porre dei limiti o ad ambire a superarli. Al centro della dottrina del positivismo giuridico si annida la volontà di ordinare le differenze riconducendole all’unità della legge; l’utilitarismo si fonda sull’idea secondo la quale il criterio di valutazione morale deve essere sensibile alle conseguenze delle scelte le cui conseguenze devono essere valutate nei termini della utilità o disutilità che esse generano sui nostri prospetti di vita; il contrattualismo si presenta come una proposta teorica di politica normativa che riconosce a origine e fondamento dello Stato o della comunità civile una convenzione, un contratto, fra i suoi membri; il neocontrattualismo amplia tale definizione individuando i principi fondamentali su cui poggia la società, in ipotetiche scelte compiute da ipotetici soggetti nell’ambito di ipotetiche circostanze.

Di contro, appartengono al lessico della speranza le posizioni dialogico-relazionali che si rifanno a una comprensione di ontologia ermeneutica della realtà giuridica e attraverso la categoria di persona libera, razionale, relazionale e dialogica, approcciano il fatto-diritto senza limitazioni, dal momento che tengono insieme la dimensione storica e culturale propria del diritto, la sua mediazione linguistica e di conseguenza, l’accesso creativo a una relazione con l’Altro.

Occuparsi delle passioni del diritto, cercando di scoprirne i significati, è un tentativo di approcciare il diritto nelle sue ragioni, valorizzandone il portato antropologico che vi è strettamente connesso, perché il progetto del diritto possa essere carico di senso collettivamente inteso e l’interesse alla persona possa contribuire a creare spazi e disegnare forme che superino i confini di un’esistenza solo individuale.

Come la storia insegna, al superamento di un confine è quasi sempre corrisposto un gesto violento di reazione; ancora oggi è sempre ambiguo un discorso che rimanda alla violazione di una separatezza perché facilmente può essere interpretata in senso egemonico e di conquista, anche senza scendere al livello di un vero e proprio conflitto armato. Per averne un’idea basta pensare agli ottusi colonialismi che ancora oggi governano molte delle relazioni internazionali, siano esse culturali o di natura economica, come nel caso delle multinazionali. Superare i confini significa innanzitutto prendere sul serio la persona e il fatto del pluralismo e della diversità, scoprendo gli interessi che uniscono e generano relazioni al di sopra delle barriere culturali, nazionali, di religione, razza e classe sociale, al fine di escogitare possibili concetti descrittivi e normativi per una effettiva e concreta tutela della persona nella sua arricchente dimensione di senso.

A. Iaccarino, Nessuno resti escluso. La giustizia oltre i confini, Lateran University Press, Città del Vaticano 2013.



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