MARCO REVIGLIONE - Ritratto di Amalia Guglielminetti
Inauguriamo oggi con questo saggio- rassegna di Camilla Bisi del 1916 sulle poetesse d’Italia del suo tempo (Camilla Bisi, un tempo militante femminista, giornalista de “Il Lavoro” di Genova e fondatrice di “Ragazze”. Infuriata per il primo concorso di bellezza per segretarie, indetto dalla rivista “Piccola”, la Bisi sosteneva che le competizioni simili andavano proibite. -Da DONNE INCHIODATE NEL RUOLO DI MOGLIE, MADRE. O MONACA di Stefania Maffeo) un lavoro di ricerca e raccolta sulle poetesse italiane a partire dall’unificazione del regno d’Italia. Le nostre intenzioni sono quelle di continuare la rassegna di poetesse iniziata dalla Bisi nel 1916. Scrive la Bisi alla fine del suo saggio
“Ed ora, finita la troppo affrettata rassegna di queste poetesse nostre, coloro i quali affermano che la donna non può e non sa essere poeta, diranno, a conferma della loro opinione, che non una di queste poetesse ha dato ancora il capolavoro.
E’ vero, la donna ancora non ha dato il capolavoro, la donna poeta, forse, non lo darà mai. Finchè essa farà perno della sua vita, l’ amore, e scopo del suo amore il figlio, la donna, penso, non darà mai l’ opera d’ arte perfetta, essa che fa opera perfetta di vita.”
Questo si scriveva all’inizio del 900, vedremo se oggi, passati quasi cento anni, la donna ha dato il capolavoro e se può e sa essere poeta. Noi pensiamo di sì, la donna sa e può essere poeta oggi come cento anni fa, solo che allora era un’affermazione quasi scandalosa, si spera non lo sia anche a distanza di un secolo.
LE POETESSE D’ ITALIA
Bisi, Camilla (fl. 1916) Poetesse d’Italia [1916] (Milano: R. Quintieri)
Premiata Tipografia AGRARIA Milano – Aprile 1916
da qui
Mai come oggi, penso, scrivere poesia significò, per una donna, rivelare tutto di sè; mai come oggi colei che è o che si crede chiamata nascose con tanto pudore, talvolta come una colpa, i suoi versi che la esporrebbero denudata alla critica.
Forse perchè si è veduto postillare ogni rigo, ogni pensiero di quella bella e appassionata Gaspara Stampa, che parlò il linguaggio dell’ amore umano, e far della sua morte un gioco di parole e presentarcela in una nuova edizione insieme alla Franco, gaia e libera cortigiana?
Forse perchè ieri ancora abbiamo visto ricercare nella vita di una nostra poetessa tutto quanto fosse celato o si prestasse all’ equivoco, per smania di scandalo, sapore più sapido, per alcuni, della schietta ignoranza?
Certo, mai come oggi si disse e si affermò che la poetessa è, necessariamente, creatura di passione e di senso; certo con nessun altro che con la donna il pubblico si mostra più severo: le critiche ai libri femminili di prosa e di poesia sono vivisezioni.
Ma di questo le donne non si lamentano: troppo buon seme fu gettato nel vasto campo della poesia perchè anch’ essa non voglia raccoglierne, a messe matura, un manipolo; e per una che cade altre vengono innanzi e raccolgono a piene mani.
V’ è chi dice: voi non siete che creature mediocri, tutte prese dal vostro io, singhiozzanti i vostri dolori con parole banali di femminette, cantanti il vostro gaudio con una esuberanza che sa di follia. Voi siete malate della vostra fantasia; mutate in dramma i disinganni, in felicità la più comune letizia; ma non sapete communicare nessun palpito e nessun affanno.
Siete create per la maternità e per la casa: è forse necessario che cantiate? Siete essere passivi: perchè gridate le inutili parole di rivolta? Ci sono tanti uomini che scrivono…. che bisogno abbiamo delle donne?
E’ vero: ci sono tanti uomini che scrivono…. male: perchè dunque respingere la donna anche se dice cose forse non grandi, non nuove, le dolci cose che la sua anima sa?
Non tenta la «grande» arte; il suo buon gusto è innato ed i primi lavori, generalmente, sono i fluidi armoniosi versi liberi in cui si può chiudere tutta un’ anima: lievi come i merletti che l’ adornano –fini, morbidi, odorosi.
Ma una donna che scrive poesia è una donna che canta! Ma non credete dunque che i figli da lei nutriti, da lei cresciuti al ritmo armonioso che è dentro di lei, non credete ch’ essi debbano essere i più belli, i più buoni, i più armonicamente felici?
La donna scrive troppo, è vero. Tempo verrà forse in cui si ricercherà per quale fenomeno la donna cantasse tanto; se ne ritroveranno le cause nei costumi, nella letteratura, nella storia; forse qualcuna che oggi trionfa nell’ effimera gloria scomparirà travolta dall’ oblio, ma non tutta sarà disprezzata e non tutta cadrà in dimenticanza questa schiera salda e pur mutevole; multiforme e pur compatta; bella falange ricca di energia e squisita di sensibilità che i nostri tempi hanno saputo formare.
E ricercando i segni precursori di questa fioritura poetica femminile, duplice sarà la traccia che si dovrà seguire, risalendo su su, per la catena vibrante: quelle che accanto alle giovani rappresentano, in certo modo, la salda tradizione classica; quelle che accanto alle classiche rappresentano la più raffinata modernità.
Giannina Milli e Alinda Brunacci Brunamonti, chi di noi non le ricorda e non deve lor qualcosa?
Dolci morte che furono nell’ albore della coltura femminile le prime e radiose luci; pure sorgenti cui si sono dissetate tutte le gloriose e gaudiose giovinezze d’ oggi, quanto diversa daile loro limpide e quete acque, la travolgente e impetuosa fiumana da esse alimentata!
Non credo che, viventi, la moderna poesia femminile raccoglierebbe il loro plauso. Non più la facile vena improvvisatrice e le «stanze a rima obbligata» di Giannina Milli; non più i poemetti elaborati e le canzoni religiose e patriottiche e i sonetti di compassata perfezione di Alinda Brunamonti, ma una poesia nuova che è nervo più che muscolo, ed insieme musica, numero, colore, sostanza.
Pure, alla classica fonte, materiate però di maggior sentimento e di maggior vigoria altre si avvicinano ancora: gloriose morte quali Vittoria Aganoor e Adele Galli, gloriose viventi quali Luisa Anzoletti ed Elda Gianelli.
Non modernissime, se poesia moderna vuol dire ricerca tormentosa d’ ogni intimo moto dell’ anima, se vuol dire affannoso ripiegarsi su se stessa, analisi quasi crudele, audacia di concetto e di ispirazione, sincerità quasi brutale, raffinatezza scrupolosa di mezzo e di forma.
Non ancora moderna la poesia di Vittoria Aganoor in cui l’ anima poetica feminile rivisse più fulgidamente quando già si credeva che con la morte di Alinda Brunacci Brunamonti fosse scomparsa l’ unica, la maggiore poetessa d’ Italia.
Ritemprata nella sua giovinezza pensosa e studiosa, nel nobilissimo temperamento di donna e di artista, la poesia ne uscì più aggraziata ma ancor classica; più vivace, più umana ma ancora avvinta alle consuetudini della letteratura e del pensiero.
Profondi brividi di tutto il dolore umano passarono nella poesia di Aganoor la felice, e nella limpida struttura dei versi di Adele Galli, come una fanfara gioiosa, l’ ardore di fede, la travolgente speranza, quasi un soffio di divinazione nel destino d’ Italia; e in Luisa Anzoletti, la più colta di tutte le poetesse, insieme alla erudizione maschile il sorriso della grazia feminea e in Elda Gianelli la perenne freschezza della poesia sentimentale e amiliare insieme alla nuova e armoniosa mobilità del verso libero.
Ma non ancora la donna, oltre alle grandi maiuscole della Patria, della Fraternità e dell’ Amore, aveva cantato le vere, le aspre battaglie dell’ anima e della vita; buone battaglie, sì, quelle scomparse e queste viventi hanno combattuto, ma in nome di una idealità che oggi molte abbandonano per una più umana e più sentita realtà.
E non è irriverenza od oblio che ci fa unire i nomi di Elda Gianelli e di Luisa Anzoletti a quello delle due scomparse, come non è la simpatia o il capriccio che ci fa ricordare quali vere precorritrici della poesia moderna una morta e una vivente la cui poesia è, per l’ Italia almeno, come morta: la contessa Lara e Annie Vivanti.
Maturata più tardi colla prosa d’ annunziana, squisita di raffinatezza linguistica ed estetica e perfetta di efficace realtà, il primo nocciolo della poesia femminile moderna fu saldato da queste donne singolari: quella, che Matilde Serao battezzò poetessa d’ amore; questa che Freilegath chiamò «bambina meravigliosa».
Non più dunque la pedantesca e classica erudizione, la minuziosa coltura, l’ enfasi inutile, i grandi nomi sonanti: quello che era diffetto nella poesia femminile si muta in dono, in originalità, in grazia.
Si ama in lei, pur criticandola, l’ esuberanza, l’ incertezza la varietà la variabilità, l’ instabilità: in alcune la foga troppo impetuosa e forse non abbastanza travolgente; in altre la superficialità, la chiara e semplice armonia.
Tranne poche che pubblicano i loro primi versi flebilmente romantici per la smania del nome sulla copertina e sul giornale, tranne alcune, la poetessa moderna scrive bene.
Intimorita dal dilagare di giovani poeti raffinati, ella ha creduto suo dovere di curare maggiormente la vena troppo spontanea, di «incanarla» nella formula che dichiara perfetto ciò che è esteticamente bello, anche se la bellezza nasconde la fragilità della costruzione; guidata in questo, anche, dal suo sicuro e tutto femineo istinto di «ciò che piace».
E avviene questo: che la modernissima poesia femminile ha una sicurezza di tocco, una saldezza compatta di linee assai maggiore che nei giovani autori: non il leggiadro e sentimentale ritmo di Guido Gozzano, di Marino Moretti, di Cazzamini Mussi….
La Canzonetta! Poche la tentano e per poco.
Le molto giovani che la trovano più rispondente alla loro facile e spontanca ispirazione: una sola, già arrivata, che l’ affrontò con un senso d’ arte più severo e più sobrio e vi diede la sua impronta: Amalia Guglielminetti.
Ma non è possibile parlare di Amalia Guglielminetti senza parlare di Ada Negri. Nulla le accomuna; non il loro destino di donne che fu torbido per ambedue, ma sopportato con diverso animo e con diverso cuore; non le tendenze letterarie che sono opposte–e pure noi le vediamo unite, tutte e due egualmente risvegliatrici di energie.
Ada Negri, figlia del popolo, la cui sottile persona alimentata dal sangue gagliardo da cui è nata, dà a chi la ripensa una piacevole visione di finezza e di robustezza; volto la cui maschera mobilissima, quasi tragica, ove ardono i bellissimi occhi, riesce indimenticabile a chi l’ ha veduta una sola volta; donna che anche ora, nella vita cui è giunta attraverso profondi mutamenti di tutto il suo essere, nella raffinatezza di abitudini che appagano il suo innato senso estetico, ha salvato qualche cosa di acerbo, di crudo, che non è mai volgare ma che piace come ogni espressione di sentita sincerità.
Quanto cammino dai primi versi di Motta Visconti per l’ aspra poetessa che adolescente fu dichiarata ribelle e che ribelle si è mantenuta ancora!
Cinque tappe, nella sua vita; cinque volumi materiati di lacrime, non nella freddezza compassata delle rime, ma composti giorno per giorno, in periodi tumultuosi: tutta l’ anima e il sangue della poetessa nostra vi sono passati e distillati goccia a goccia.
Qualcuno ha rimpianto la sua foga ventenne e davanti ai suoi due ultimi libri, i più dolorosi (Dal Profondo ed Esilio), si sono compiaciuti nella critica demolitrice non pensando che tutta una vita era passata fra essi e lei.
Tutta una vita che nessuno ha il diritto di indagare, ma che deve averla bruciata fin nelle viscere, se ancora le sue ultime liriche sono così apre e dolorose.
Come pretendere che i suoi versi d’ oggi siano quali glieli dettava la solitudine e la miseria?
Altra miseria più attanagliante di quella, ella conobbe, altra solitudine più desolata: tutte le follie di un cuore ancora giovane che chiama vanamente; tutte le saggezze di una coscienza diritta che sa imporre la propria forza.
Nella sua vita deve esserci stata una scissura profonda; troppo artista per non mutare col mutare degli eventi, un abisso sta fra i suoi tre primi libri e gli ultimi due.
Gli spasimi della miseria; le ansie ribelli di un cuore assetato di gloria; l’ esaltazione appassionata dell’ amore materno… e poi la sua vita parve arrestarsi, parve spezzarsi, e dopo sei anni la ritroviamo in un nuovo volume, più inquieta di quando fanciulla tutto l’ inquietava; più assetata di quando ventenne cantava i dolorosi desideri.
Tutto è mutato, si è inalzato, si è affinato nella sua anima per una più che umana facoltà di sofferenza.
Bisognava chiuderla nelle strettoie di una prigione e murarla viva, se si voleva ch’ ella non gridasse più quel suo grido. Non rimpiangiamo ch’ ella non sia più quale prima si rivelò al pubblico: non sappiamo ciò che domani potrà dire e dare; la sua vena di poesia, finchè avrà nervi che vibrino e cuore che si spezzi, è inesausta. Forse domani da lei ci verrà il canto del più puro, del più appagato amore.
E’ madre.
Ed è madre di Bianca; di colei cioè che nel suo nome evoca già una visione di petali cadenti in una tepida primavera; di colei che già solo è l’ incarnazione della primavera; la primavera ancora acerba, che riempie le vene di un torpore divino e che del suo sorriso ingioiella il mondo.
Accanto all’ adolescente splendida come la giovinezza, il cuore materno cui tutto fa tormento e ragione di tormento, sente nascere una nuova ragione di gioia; oh, gioia un poco amara, che domani sarà di nuovo spasimo, quando la primavera bella che oggi canta così serenamente se ne andrà verso qualcuno che ha bisogno di lei e l’ attende, e non saranno le braccia materne a tenerla.
Profonda è l’ impronta che Ada Negri ha lasciato di sè: la sua lirica non si riallaccia a nessuna tradizione, ma a sua volta fu una delle fonti cui ancora attinge la poesia femminile.
E mettiamo il suo nome accanto a quello di colei che è considerata come la più originale poetessa moderna, come per una smentita.
Vi fu chi pensò, al sorgere di Amalia Guglielminetti, che Ada Negri fosse detronizzata.
Ah no–la poesia fa posto a tutti: l’ uomo ara, semina, raccoglie accanto all’ uomo, e qualche timida Ruth raccatta le spighe dimenticate. Largo campo, per fortuna, non inquinato da miasmi maligni ma spazzato da puri venti.
V’ è tutta una falange di giovanissimi, è vero, che demolisce senza saper costruire–ma è una esalazione o una moda: nessuno che sia veramente grande può essere soffocato da chi gli cresce vicino.
Amalia Guglielminetti: la più rappresentativa, la più… decorativa delle donne che scrivono.
Vorremmo a capo d’ ogni suo volume, come un suggello, il motto che poche donne ardirebbero: «E vivo in foco come salamandra».
Poetessa della fiamma. Non ancora è arsa nel grande rogo che per lei hanno acceso uomini e donne?
Ella si è condannata da sola: la sua poesia è scherno, sfida: la più crudele e magnifica analisi d’ anima femminile che si sia osata finora, da una donna.
Ella ha osato dire quello che ogni donna tace: le infinite sottili torturanti seduzioni del senso, da cui è assalita, combattuta, affranta.
Certo, non rappresenta la nuova e buona e cosciente femminilità: ma, come tutte le creature veramente sincere, ella cantò quello che era la sua vita, null’ altro, e non per vanto, non per bluff, non per smania di notorietà.
Quando, come in una teoria bistolfiana, uscirono i suoi versi sulle Vergini Folli, pochi si avvidero ch’ ella fosse un eccezionale temperamento di poetessa, malgrado la sua forma d’ arte fosse fin d’ allora perfetta e cristallina; ma solamente quando parlò di sè apparve veramente grande, e fu combattuta per la sua confessione.
Certo, vi fu un errore iniziale con la presentazione che fece di lei, senza saper di nuocerle, uno dei nostri più acuti critici: il Borgese.
Ella apparve nelle Seduzioni dietro il velo di un nome che alla maggioranza del pubblico suonava equivoco… Saffo dal crine di viola.
E fu attorno a lei quasi un’ aurcola di perversità, quai che quelle Seduzioni contenessero alcunchè di eccitante e di morboso.
Magnifiche terzine: chi leggendole non se ne sentì nelle vene e neil’ anima il ritmo perfetto?
Libro perfetto come un bel frutto, maturato poco a poco con un passaggio mirabile, dalle Vergini Folli in cui è ancora un soffio di giovinezza un poco acerba, ma già martoriata e profonda.
Apritelo a caso: dimenticate un istante che è di una donna e di una donna che molti condannano; chi di noi, profano, non se ne sente compreso di ammirazione, e poeta, non dice «Vorrei aver scritto questo»?
E’ inopportuno deplorarne la sincerità: le vicende della sua vita sono così compenetrate con la sua arte, che le era e le è impossibile disgiungerle.
Ieri ella cantò le pallide sorelle, le Vergini delle rinuncie e del desiderio, perchè ancor quasi alla soglia dell’ adolescenza tali erano state le sue compagne; più tardi l’ avidità di vivere e le fugaci seduzioni che ogni giovane donna conosce; quelle del sorriso, dello sguardo, della gioia, della ricchezza–oggi, con più accorata ma con sempre canora voce l’ elegia del cuore insonne; ebbene, possiamo dire: «E’ una donna che compiangiamo o che disprezziamo»–ed ella è di tale tempra da non curare nè il compianto nè il disprezzo, ma non possiamo dire in coscienza che per la morale valeva meglio ch’ ella tacesse.
E’ in lei, in fondo, anche nell’ ultimo meno velato libro, un curioso dualismo di sensualità e di sensibilità, mentre spesso l’ una esclude l’ altra. Donna che in fondo non s’ accontenta di un amante, ma che cerca sempre qualche cosa di più profondo, di meno frivolo del vano amore; qualche cosa di superiore, di irraggiungibile e destinata invece all’ amore di un uomo che generalmente non la vale.
Destino di donna, dopo tutto, quando la donna ama veramente.
Ah, ci voleva questa poesia accanto a quella materiata di minor sensualità ma di non minor passione di Ada Negri ed a quella di altre poetesse che non osano o non sanno parlare d’ amore.
V’ è altro che salva questa poetessa dalla taccia di equivoca immoralità: la coscienza che ha di se stessa.
Ella ha accettato la sua vita senza un tentennamento, senza una viltà, nemmeno verso di sè. Non siamo fra chi dice: aveva tutto da guadagnare.
No, ella aveva tutto da perdere perchè la donna, qualunque compenso l’ attenda, ci perde sempre..
Ma se il caso, l’ istinto, il destino, la volontà, l’ hanno portata a questo, ella non ha creduto, e giustamente, decaduto il suo libero diritto al canto. E noi sentiamo che davanti a questa giovane donna, tutto ciò che è vicenda e vita deve essere scartato, perchè rimanga solo ciò che è arte.
Non rimpiange, ma talvolta nel suo canto è una nota meno limpida e meno sicura: e l’ inutilità d’ ogni tormento e d’ ogni amore, il vuoto mascherato dai fiori più smaglianti, le appare ad un tratto come una voragine.
Là ov’ ella si paragona all’ arida vite:
d’ inutili fronde m’ adorno,
io spremo ciascun giorno l’ essenza ch’ è in me più vitale.
Ostentan belle tinte, s’ espandono lucide al sole
le fronde di parole che di sangue e fuoco ho dipinte.
Ma per il fine oscuro forse imposto a tutte le vite
come l’ arida vite alcun grappolo io non maturo.
e parlando all’ amato, in un attimo di debolezza, confessa:
So che il femineo incanto del mio corpo in me ti seduce
più assai che non la luce del mio spirito ebro di canto.
Non tornerebbe indietro: forse se dovesse ricominciare, ripensando all’ arte sua che ne è uscita perfetta, rifarebbe tale il suo cammino, ella che ne sa ogni asperità ed anche ogni oasi più soave e più ascosa.
Sì, in qualche poesia, come nel Filosofo Triste, è un accenno, benchè lieve, al tormento di sentirsi molto discussa e da molti condannata:
Poi ch’ ella osò il coraggio insolito di chi confessa
con verità se stessa, turbò qualche ipocrita saggio.
Chi le scagliò il feroce suo biasimo e chi l’ ha bandita
perchè esaltò la vita con la più devota sua voce;
e in altre la tristezza degli amori in cui ella crede di dominare e, come spesso, è la dominata.
Ma sentiamo oscuramente ch’ ella sa accettare con dignità ogni dolore, senza nessun urlo incomposto, se pur quando è sola si abbandoni al pianto senza ritegno. Piccola attrice che sa mascherare di un riso il pallore del volto, sono suoi quei Consigli che ogni donna dovrebbe seguire e quell’ altra, il Sorriso, la più comprensibile all’ anima femminile.
Per questo giudichiamo la sua arte più irregolare ma forse meno deprimente di quella di Ada Negri.
La sua sincerità quasi brutale non permette il compianto e viene così a mancare alla sua arte quell’ elemento pericoloso che è la simpatia. E’ un’ arte sazia, una formula compiuta cui più nulla si può togliere o aggiungere; tormentata, insodisfatta, ma sazia–il suo dolore è meno violento, più contenuto, più aristocratico direi, come chi molto avendo goduto, pur piangendo, ne ricorda tutte le dolcezze, mentre Ada Negri ci esalta con la speranza dell’ irraggiungibile, con l’ ardore del non ancora raggiunto.
Venne ricercato tutto quanto, in Amalia Guglielminetti, rivelasse l’ impronta di altra poesia o di altra letteratura, e benchè la sua poesia si ricolleghi, in certo modo, alla moderna letteratura femminile francese, non fu possibile pei suoi due primi volumi fare alcun nome.
Ma nell’ Amante Ignoto apparve la falsariga d’ annunziana, che non le giovò. Qua e là ancora la vibrazione del grande fuoco che l’ abbrucia; qua e là la voce sua che si fa udire attraverso le voci degli altri, ma è un’ opera arida, impersonale, voluta.
Nell’ ultima sua opera, l’ Insonne, originalissima nella costruzione metrica, salda pur nel ritmo facile (e a ciò giova l’ impressione di continuità, di unità che ci viene da tutte queste liriche, simmetricamente costrutte raccolte in volume) troviamo finalmente, insieme alla seducente sentimentalità di certa poesia moderna, il ritmo tutto francese delle poesie di Sully Prudhomme.
Non sappiamo se ella abbia molto studiato e molto amato questa poesia tutta interiore: certo le sue brevi liriche, cadenzate e pur vibranti, incisive pur nel verso molle, hanno il sapore delicato di quelle francesi.
Vedete L’ Immemore:
Nessuna cosa al mondo siccome l’ amore s’ oblia
Nessuna bramosia si placa in torpor più profondo.
e quell’ altra lirica, La solitudine, in cui non è solo, qua e là, a sprazzi, un po’ della profondità di Prudhomme, ma che è tutta impregnata di una infinita tristezza, di una chiaroveggente mestizia;
La morte passeggera:
Talvolta anche si muore pur senza spezzar l’ esistenza,
Sens’ urto alcuno, senza violenza, in lento torpore
non ricorda Le vase brisé?
Non solo la sua poesia accoglie, oltre all’ ardore sensuae, anche la profondità del dolore: vi sono anche, a quando a quando, note freschissime e pure, di una serenità, di una limpidità unica.
Nel Convegno del Bosco, una delle più appassionate, è ad un tratto come un soffio dolcissimo:
Tra i fusti esili passa il brivido di prima sera,
poche parole che bastano a darci viva l’ imagine.
E in Giovine Estate:
Giorni di primavera, già caldi di un soffio d’ estate,
come lenti indugiate in stanchi crepuscoli a sera!
Già languendo la luce in carezze voluttuose
sfiora le dolci cose ed al sonno le induce.
E si prolunga l’ ora ambigüa e l’ ombra ne emana
con una quasi umana tenerezza che discolora.
Canterà ancora, questa nostra poetessa, che fra le molto giovani ha saputo ascendere trionfalmente?
Dilaniata nella sua vita dal conflitto immenso che è in lei, dalle aspre critiche che si infrangono contro la sua fierezza, forse il suo nuovo canto di «Malata d’ anima» sarà ancor più aspro e meno puro, più doloroso e meno semplice.
Ma il suo canto d’ amore è esaurito ed altro non sarà, domani, che quello che fu ieri: auguriamole invece, chiedendole perdono dell’ augurio, la buona sferza del vero dolore che sappia spronarla al canto più bello.
Meno rigogliosa e potente di quella di Ada Negri e di Amalia Guglielminetti ma non meno intensa, è stata ed è la fioritura delle altre poetesse.
Talune, bagliori rapidamente accesi e rapidamente spenti, vite effimere di un giorno; altre, fuochi inesausti alimentati sempre più di calore e di luce; talune, ristrette nel piccolo cerchio di una ammirazione regionale e familiare e non abbastanza temprate pel grande volo; altre, conosciute e amate, ma non mai o non ancora assurte alla meta gloriosa; giovani e non più giovanissime: raffinate e semplici; sentimentali e ribelli; delle più lontane regioni d’ Italia; anime diverse riflessi di una unica luce.
Teresah… anima colma, bambina dagli occhi chiarissimi accecati di immensità; fragile, delicata, sentimentale–è passata pel mondo col suo canto folle, col suo piccolo cuore spezzato, con la sua veste di sogno.
Creatura di sogno, quasi irreale, ella ci appare non dai primi libri ove è evidente l’ imitazione d’ annunziana (Nova Lyrica) pur nella struttura libera e incomposta del verso. Ma negli ultimi versi profondi di un profondo dolore che ha sapore di pianto, di morte, di follia.
Parole e parole…. dolcissime, lievissime, un poco lontane, un poco inutili, pronunciate quasi da una bocca infantile che canta, sospirate quasi da un cuore fragile che batte.
Non piacque, a taluni; la dissero appunto verbosa e monotona, per l’ insistenza dolorosa su lo stesso tema, per la delicata facilità delle liriche, per certa sentimentalità e puerilità.
Questo suo immenso e inesausto dolore che singhiozza, quasi in ritmo di canto, è spesso troppo lontano da noi, troppo diffuso in pagine e pagine perchè possa compiutamente avvincerci; questa irrealità in cui si compiace, di fatina misteriosa con le mani piene di coccole e i cappelli al vento e il cielo nelle pupille (Il libro di Titania) può apparire a taluni come una piccola posa.
Ma l’ armonia intensa dei suoi versi, così liberi, così ondeggianti ad ogni moto dell’ anima; la musicalità, la giovinezza chiara, fresca, di ogni suo libro; la ridente e pur mesta tenerezza ch’ è in tutte le sue parole, fanno dell’ opera sua una delle cose nostre più deliziose e più care.
Profondamente pura anche nel più passionato ardore, eternamente infantile anche nella maturità, è tutta lei in un suo libro: la più musicale e più armoniosa nostra creatura femminile–la donna amante carezzevolmente buona.
Tutto l’ amore di cui si è alimentata l’ ha resa simile al vaso di alabastro in cui arda una fiamma; simile alle creature create da Maeterlinck per la gioia dei nostri occhi, tanto sono squisitamente belle; e l’ amore delle favole, ch’ ella ha portato profondo sin dalla sua infanzia, l’ ha mutata in una sorella minore di quelle sottili innamorate che l’ incanto di un mago teneva prigioniere in castelli misteriosi e inacessibili.
E tutto ciò è deliziosamente estetico, se non è molto profondo: e la sua poesia è come una musica un poco lontana che accompagni una danzatrice, nello scenario un po’ artefatto e stilizzato di un giardino settecentesco: voi la vedete in guardinfante, la bocca troppo rossa nel viso troppo pallido, sotto l’ onda bianca dei capelli, con un piccolo neo provocante all’ angolo dell’ occhio, ove si riflette tutto lo smorto azzurro di un cielo autunnale; o in crinolina, coi riccioli spioventi intorno al viso, avvolta in uno scialle cachemir dalle ricche pieghe, bizzarra e seducente come un figurino del «Corriere delle Dame»: e via via i quadri ch’ ella si compiace di formare con la sua delicata bellezza, si scompongono e si compongono fino a formare uno solo in cui ella passa, unica e pur mutevole, con un riso silenzioso e felice di sentirsi così bella.
Quelle che accanto a Térésah meritano di essere ricordate e che, pur senza abbagliare il mondo della loro luce, nobilitarono la poesia con la grazia del verso, sono molte.
Ma mentre avviene ora che quasi ogni anno la poesia femminile, come una pianta rigogliosa, dia frutti forse troppo precoci ma densi di succo, per la magnifica vitalità che è delle cose giovani, quelle molte che scrissero non si affermarono tutte.
Ci furono, come dissi, inizi fulgidi che languirono poi miseramente, non so se per mancanza di alimento o per difetto di costituzione; ci sono temperamenti equilibrati di donna cui l’ ispirazione fu sempre, più che una necessità, un diletto, uno svago, e che non per mancanza di sincerità ma talvolta per ragioni famigliari, non hanno potuto e non potranno mai dire veramente tutto di sè.
L’ originalità, la sincerità è solo del tempo moderno e delle cose giovani (d’ anima o di anni), ed è per questo forse che molte di queste verseggiatrici, pur conosciute ed apprezzate, non riescono però a strappare l’ ammirazione che solo la vera poesia sa destare.
Nobilissime tempre, quali Silvia Albertoni Tagliavini che Panzacchi presentò favorevolmente e Clelia Bertinj Attilj, che pur chiamate dall’ arte non giunsero mai all’ altezza cui oggi il primo giovinetto poeta si crede in dovere di aspirare; quali Rachele Botti Binda, Giulia Cavallari Cantalamessa, Grasia Pierantoni Mancini i cui volumi anche se discussi e apprezzati dal pubblico, non risposero però a quella speciale formula che si richiede al vero poeta dal gusto degli appassionati di poesia; donne che scrissero perchè di animo gentile e sensibile, di mente colta ed elevata, non per un prepotente bisogno di gridare, poiché la poesia è e deve essere grido.
Donne quali Luigi di S. Giusto e Teresa Venuti de Dominicis; la prima notissima, soprattutto, per la traduzione perfetta delle Elegie romane di Goethe; la seconda, austera gentildonna, carducciana nella classica ispirazione e nel verso grandioso, ispirato da tutto ciò che è vasto, ampio, maestoso nella natura e nell’ arte; quali Angelina Guaglianone Quinti e Jolanda Bencivenni che dovette ispirarsi e meditare sovente i volumi di Ada Negri, e che da anni tace, e Rosa Pozzi Moro che nel 1913 dava alle stampe le sue Risonanze, documento interessantissimo di autodidattica.
Di umili origini, emigrata in America quasi bambina, da sola si fece e divenne poetessa: poeta della nostalgia, sopratutto. E la sua non è quindi solo opera d’ arte (un poco tenue, non sempre abbastanza avvincente, ma misurata e sentita) ma anche di italianità.
Un’ altra donna singolare, di vivido ingegno, e che più e più si afferma per la profondità, per la tenerezza; anima di poeta che porta lontano il nome d’ Italia e lo fa caro e venerato, è Nina Infante Ferraguti che le belle edizioni del Formiggini di Genova presentarono due volte al pubblico, e non invano.
La sua è poesia piena di ardore contenuto e che pur irradia luce e calore; è vera poesia di temperamento, quella che avvince, quella che ha veramente l’ efficacia de le cose vissute.
E nessuno ignora l’ altra anima maternamente poetica che dalla Sicilia ci fa udire il suo canto, il più nobile canto che sia uscito da bocca di donna, quando per nobiltà si intenda non solo l’ elevazione del pensiero, ma anche la fiamma dell’ anima.
Angelina Lanza, donna e madre, nella quiete della sua dimora, non ha nessuna esasperazione di dolore o di gaudio ne’ suoi canti.
E’ la donna onesta, serena, buona, che dice buone e oneste cose. Eppure nessuna sciatteria; nessuna parola troppo banale; la sua vena è chiara, trasparente, fine, tersa; ritemprata nella dolcezza delle memorie, nella speranza del bene che verrà domani: arte consolatrice per eccellenza, e, mirabilmente, arte perfetta.
Ne La Fonte di Mnemosine, assai più che ne Le Rime de l’ Innocenza noi la troviamo ne la sua piena bellezza di forma e di impeto; bellezza che è tutta sua, in cui non è nessuno sforzo, nessun artifizio, nessuna ricerca affannosa di ritmi e di parole contorte: tutto è pervaso di una intima penetrante semplicità e dolcezza, tutto è materno, come l’ anima che l’ ha saputo comporre entro di sè, giovane come il cuore che l’ ha voluto entro linee pure e perfette perchè quelli che l’ amano la ritrovino sempre.
Anita Zappa e Bruna si riaccostano a lei. Due care anime anche queste, pervase de la stessa dolcezza, de la stessa sincerità: la prima meno profonda all’ inizio (Intime Sinfonie) e più originale, più penetrante, più coscienziosa quando piegò a nuove forme e a nuovi ritmi la sua arte e affrontò la nuova via della scena lirica come già aveva tentato Térésah in Oriana e il Saggio.
Colta musicista, questa forma dispondeve assai più al suo temperamento originalissimo e versatile, potendo ella volta a volta seguire l’ ispirazione del colore, del suono, della forma. E’ sua quella Violinata, che ebbe, musicata, così grande successo e che insieme ad altre composizioni forma un volume simpaticissimo in cui l’ arte non si piega alle volgari esigenze del palcoscenico, ma le inalza fino ad essa.
Bruna invece, pur avendo arricchita l’ anima di infinite sensazioni e sfumature nuove, è rimasta la vergine che piange il suo sogno stroncato da la morte.
L’ amore è ancora nel suo ultimo volume la cara memoria dolente cui approda l’ anima assetata, ma è peccato che questo dolore reso musica sia troppo diffuso. Maggior sobrietà gioverebbe a questa arte di rimatrice cui nulla manca per essere veramente compiuta se non uno sforzo maggiore per contenerla entro certi limiti.
Ma dir questo, forse, vuol dire non sapere che cosa sia poesia e poesia di donna; di una donna come questa che visse e vive pel canto pel desiderio del bene perduto; che calma e serena per non turbare nessuno, trova finalmente nel canto la pace.
Più d’ ogni altra, Bruna potrebbe dirci il balsamo consolante della poesia; più che ogni altra ella ha diritto al canto, per il doloroso dramma di rinuncia, come gaudioso compenso alla sua devozione.
Accanto al nome di Bruna, per l’ affetto che le lega, ecco Adelalde Bernardini (moglie di quel grande maestro che fu Luigi Capuana) cui spettano le parole che un critico ebbe per altra poetessa: «impetuosa e teneressima anima siciliana».
Ritroviamo in questa poetessa che canta soprattutto l’ amore, un poco di Térésah: ma più aspra, più sincera, meno velata; temperamento che, per la sensualità melanconica, possiamo anche paragonare ad Amalia Guglielminetti.
Appunto di Téresah ella ha la vena facile se non ricca e certe adombrature poetiche che tolgono efficacia, talvolta, alla ispirazione assoluè tamente sincera; orgogliosa e ambiziosa, il suo orgoglio e la sua ambizione sono nobilitati da questa arte sempre dignitosa, da questa ricerca di una linea, di una forma estetica che sempre più e sempre meglio risponda al suo temperameto veramente signorile.
E’ una simpatica sincerità senza nessuno strappo brutale, sempre eminentemente poetica, ma in cui appunto sentiamo palpitare il calore delle cose sofferte.
E infatti nei suoi libri noi la sentiamo assai più donna, per la maturità dell’ anima e della sofferenza, di Bruna e di Térésah che rimangono verginali anche nel loro amore e nella loro intensità di dolore.
E’ in lei già il torbido dramma di Amalia Guglielminetti, il dramma de la giovane donna amante, strappata alla trama del sogno giovanile, dalla realtà dell’ amore: troppo fiera per piegare al rimorso; troppo nobile per rinnegare ciò che ha compiuto senza volontà di male ma con completa sincerità; troppo poeta per chiudere il canto ardente e impetuoso e nuovo entro confini convenzionali non rispondenti alle segrete vicende della sua vita.
Dramma di una bellezza singolare, inteso esteticamente, che ha appunto per questo dato finora frutti originali. Ma in Amalia Guglielminetti l’ ardore è già più torbido; è l’ unica fiamma che ella esalti; mentre in Adelaide Bernardini noi troviamo altre fiamme consolatrici; l’ amicizia — la tenera comprensione de le cose, che ne fanno un’ anima completa di donna.
Anche Teresita Guazzaroni in Coix Lacryma, edito pochi anni or sono, appare, se non più, stranamente singolare.
Portata dalle vicende a vivere una vita attiva e piena, presa da mille cose, ravvivata e riscaldata dalla sua intelligenza, la poesia in lei è veramente il gaudio delle ore serene, il riposo dell’ intelletto, e ci rivela la sua conoscenza delle letterature straniere, la vasta coltura, la vita tutta speciale.
Non poesia femminile veramente, quando questo nome corrisponde ad un concetto di debolezza e di fragilità, di canto essenzialmente angoscioso e amoroso.
In questo suo libro, se angoscia v’ è, é sostenuta con fermo cuore; se amore v’ è, è amore che non piega.
Nessuna debolezza di vita «mancata» in questa giovane donna che ha cose interessanti e belle cui pensare e per cui la poesia non è consolazione ma orgoglio di animo forte; che, ne siamo sicuri, porta ora nella nuova vita cui l’ amore e la maternità l’ hanno chiamata la tranquilla sicurezza della creatura serena; che per il giovane compagno saprà essere sempre l’ amante e l’ amica e potrà dire, con la fierezza delle anime che sanno dominare: «Anche quando la mia vita poteva essere pianto, io ho saputo tramutarla in una canzone».
E questo fa piacere anche quando le simpatie e il gusto portino maggiormente verso poetesse più vibranti e più passionali.
Un’ altra, l’ unica forse di cui assolutamente non sentiamo la voce attraverso le rime, ma che canta oggettivamente è Liana, quel curioso temperamento di umorista che si affermò con le esopiane Favole moderne una deliziosa narratrice di apologhi.
La forma non è troppo difficile nè troppo involuta; è una vena veramente limpida adatta al soggetto, compensata ad usura dall’ umorismo, piacentissimo, dall’ osservazione profonda, dall’ efficace realismo che fanno di questi brevi componimenti, una delle cose più originali e più graziose, non solo della poesia femminile, ma di tutta la letteratura nostra.
Altre ancora: Rosmunda Tomei Finamore, simpaticissimo temperamento di artista che possiamo porre fra le apprezzate.
Vittoria Caroti, originale e profonda, che (specialmente nella novella) pel sentimento panteistico anzi, religioso, che la anima, la forma anche troppo ricercata, è da annoverare fra le migliori scrittrici nostre.
Nella Doria Cambon, Anna Evangelista e Giselda Fabrizi, quest’ ultima ancora d’ annunziana e carducciana, non ancora quindi slegata dai lacci di una imitazione che può giovare alla nobiltà dello stile, ma talvolta stronca chi vuol veramente diventare qualcuno.
E ancora Maria Stella che ha trovato alla piccola anima ardente (in quella Fonte di Ardenna quante, troppe cose belle buttate così, con una regalità che sgomenta!) il sicuro rifugio nell’ amore.
Rita Maggioni e Lucia Pagano, giovanissime, bellissime, che parvero audaci e sorelle nell’ audacia; fiere, conscie di sè, assetate di un bene che rassomiglia alla gloria e che forse son vicine a ghermire: la prima già più donna, più femminilmente seducente nelle sue calde poesie in cui troviamo qualcosa che è poi nelle poetesse sorte dopo di lei: quella preziosa sincerità che unica, ormai, dà valore all’ opera di un artista, qualunque essa sia, buona o cattiva. Essa fu una pioniera della poesia femminile e perciò la sua opera è ancor fresca e vivace, più assai di quella di Lucia Pagano, che pur possiamo annoverare fra i temperamenti originali. E insieme a queste:
Rina Maria Pierazzi, cui non ancor giovano la sincerità e la serietà dell’ intento a fare della sua ispirazione l’ opera d’ arte, e Melina Pastorelli e Anna Scalera, la prima, quella «tenerissima anima siciliana» ammirata dalla critica; la seconda desiderosa per volontà di studi seriamente classici, delle più nobili forme d’ arte. Romana Rompato di Schio che ancora una volta afferma come dall’ anima del popolo venga talvolta il canto migliore ed Edvige Frontera, di Napoli, cui le consuetudini familiari non consentono e non consentiranno forse mai una rapida sicura ascesa.
E altre ancora infinite, poetesse di un’ ora di malinconia o d’ amore, che sparpagliano le loro anime, su giornali e riviste, quali Bianca Maria Cammarano, Ofelia Mazzoni, Elisa Cibrario, Eugenia Baltresca, Erinni; poetesse per la sincerità della espressione e dell’ ispirazione pel verso nervoso e irrequieto.
Ed ora, prima di iniziare la serie di quelle giovanissime che veramente parvero affermarsi in questi ultimi anni, richiamiamo dalle soglie del sogno Colei che più sarebbe degna, per l’ eterna gioventù che è nei suoi versi, per la mirabile modernità della concezione, di stare ancora a capo di questa schiera che racchiude le più fervide speranze.
Luisa Giaconi, che ancora, al di là della grande Porta, ci parli con la tua voce in cui già allora passavano i profondi brividi del Mistero che ti attendeva; consumata da te stessa, dal tuo dolore, dal tuo amore, dalla poesia che era in te così intensamente che ti à spezzata — cara anima vigile, perfetta nella tua linea armoniosa, il tuo nome è qui, primo fra queste che tu avresti guidato, vivente; il tuo nome semplice come te, ma che la pietà e l’ amore di chi è rimasto fanno sempre più fulgido, sempre più grande, sempre più rimpianto.
Chi volesse concedersi un singolare godimento fatto di contrasti che pur generano una loro intima armonia, chi volesse conoscere le due anime femminili più opposte, le due giovinezze più diverse, non ha che da aprire i due volumi: Senza approdo di Cesarina Rossi e Arethusa di Elsa Schiaparelli, due creature che nello stesso anno diedero il loro canto egualmente bello.
Contrasto, non solo d’ anima e di arte, ma anche di fisico; l’ una, Cesarina Rossi, piccolo viso pensoso, bocca un poco dura, serrata; semplicemente profonda nello sguardo; l’ altra, Elsa Schiaparelli, seducentissima, agile e snodata e vibrante come il serpentello di maglia argentea che si compiace di portare al collo.
Poesia di anima nordica e poesia di anima orientale; la prima spoglia di ogni orpello; un poco arida, forse; un poco stentata, sforzata entro i rigidi confini del pensiero da lei voluti; poesia veramente interiore e perciò vera poesia. Molti, superficialmente presi dal fascino di quel titolo e di quel nome femminile, confessarono poi di non avervi trovato alcun atomo di poesia, alcun palpito d’ arte. L’ errore è grossolano.
Non tutta poesia è ritmo o meglio, non tutto ritmo è poesia.
L’ anima di Cesarina Rossi, se non è musicale, se non si lascia cullare dal facile affluire di armonie che spesso tentano, più della profondità del pensiero, i molti giovani, è però eminentemente intimamente poetica.
Vedete le sfumature: solo un poeta può indugiarvisi con tanta insistenza: sfumature che da taluni vennero chiamate «mania un poco borghese di particolari».
Arte borghese, infatti, se in quest’ arte noi osserviamo la superficie, la cornice in cui essa nasce e si evolve; ma invece assolutamente signorile e aristocratica, per la fierezza orgogliosa di questa anima chiusa, per il disprezzo di tutto ciò che è parola vacua, per la ricerca talvolta tormentosa dei moti, dei perchè, delle essenze di tutte le cose.
Certo, se Cesarina Rossi si lasciasse andare più spontaneamente all’ ispirazione momentanea, la sua arte sarebbe più giovanile, più fresca e forse anche più armoniosa. Così come ella ce la presenta ci dà, insieme all’ ammirazione, un curioso senso di pena, come se veramente noi la sentissimo così costretta, così chiusa da una forza a lei superiore e che può anche essere il suo orgoglioso disdegno per l’ arte comune di tutti i verseggiatori.
Ed è peccato che la chiusa severità del verso la renda meno conosciuta e meno apprezzata da chi realmente ne potrebbe ricavare godimento, dal vero pubblico, che invece si stanca su quelle pagine in cui non trova alcun ritmo e che, quando non ne ride, giudica assolutamente assurda la mania di investigazione e di analisi di questa piccola donna che a taluni sembra anima più di scienziato che di poeta.
E’ peccato, non per il fatto che a Cesarina Rossi manchi la notorietà, ch’ ella non cerca, ma perchè davvero quest’ arte straordinariamente intensa meriterebbe di essere più meditata e più compresa, sopratutto da chi si sente, come lei, attirato dalla poesia.
Un vero temperamento poetico (musicale) che abbia l’ orgogliosa schiva signorilità di Cesarina Rossi e l’ armonia intensa di altre forse meno profonde, non so fino a qual punto giungerebbe– certo molto in là.–
Manca appunto a Cesarina Rossi la simpatia che ispirano quasi sempre le creature molto esuberanti e sincere, anche se talvolta l’ esuberanza rasenta l’ indicrezione e la sincerità, la brutalità.
La simpatia dote che non tutti, che non molti possiedono, dote essenziale in un artista quando si rivolge al pubblico con le sue opere.
Ed è penoso che invece questa giovinezza troppo pensosa non abbia potuto ancora trovare molti che la comprendao, forse nessuno che l’ ami per la sua arte.
Arte che non può che perfezionarsi; la sofferenza che prova ella stessa di essere impotente a tradurre in pura bellezza quello che sente, di trovarsi nelle mani, informe, quello che si ergeva perfetto nell’ anima, farà sì che, allentate le redini di austera semplicità che ella stessa si è imposta, possa e sappia rivelarsi, oltre una mente acuta e tormentata, anche un’ anima di donna, e di donna giovane, quale ella è.
Anima orientale, ho chiamato invece Elsa Schiaparelli; ma forse, no.
Orientale per l’ esuberanza, come di magnifica flora, del verso; per le ardenti imagini; per la plastica bellezza che noi sentiamo in lei e ch’ ella, forse, adora sopra ogni cosa; per la passionalità che si rivela e si nasconde, in un gioco di cerule luci; ma nordica, anche, per la nebulosità, il simbolismo anzi di cui si compiace velare ogni sua lirica, per una profondità più riposta di concetto e di intento che a tutta prima sfugge.
Poesia che si rivela dapprima semplicemente come canto e che invece a poco a poco si fa più profonda, si addentra fin là ove non è più solo ispirazione, ma anche pensiero e ragionamento.
Anima precoce, anche questa, ma certo più giovanile, più vivace, più assetata e gaudente; anima benedetta dal calore del cuore che batte, delle vene che pulsano; anima in fiore inebriata del suo stesso profumo e della sua stessa bellezza.
La nebulosità ci impedisce di seguirne le vicende di vita, di vederla vivere, veramente. Noi la sentiamo, non la vediamo, ma ci basta, e non le chiediamo di più.
Talvolta, è vero, l’ enfasi le nuoce: è in lei l’ immensità quasi nietzschéana di certe visioni, senza averne il volo d’ aquila per spaziarvi liberamente; è in lei l’ esasperata ricerca di intime profondità là ove è solo bellezza di forme e di colore; è in lei il pudore di dire troppo di sé che la fa avvolgere in un velo supremamente estetico, ma non sempre efficace. Ella ci fa l’ impressione che qualcuno le abbia suggerito: «Non dire troppo di te: non è di buon gusto. Non bisogna cantare per cantare. Bisogna cantare qualche cosa». Ed ella cerca affannosamente questo qualche cosa; tenta di chiuderlo entro confini di miglior gusto, ma il bel fiume straripa.
Assolutamente passionale, io penso che i più bei canti d’ amore ella li abbia rinchiusi, per tema di profanazione. Questi pochi ch’ ella ci rivela sono avvolti anch’ essi in un simbolico ammanto che però non nuoce loro; impersonali, essi si prestano perciò ad ogni anima che legga, si confanno a tutte le vicende ed a tutti i cuori.
Ma non sempre le riesce questa adombratura di sè, che forse, io penso, racchiude un segreto compiacimento di mistero.
Noi la sentiamo abborrire profondamente da tutto ciò che è calma indifferenza, ristagno di energie e di sentimenti, mutismo di bocche e di cuori.
Il disprezzo pei «pallidi indifferenti»; l’ orrore per i muti, è in lei vero grido d’ anima, aspra di giovinezza, avida di vivere in gioia e in dolore, in canto ed in pianto, in amore e in sofferenza.
Questa, di cui parlo ora,–Luisa Bruschetti –vorrei chiamare «miracolo d’ amore» se il mutamento miracoloso non mi sembrasse eccessivo e ingiusto.
Davanti a questa giovane donna che, legata dal matrimonio all’ uomo adorato, giunge persino a rinnegare, a «non riconoscere» i canti della sua giovinezza, io provo, e molti con me, un senso di pena indicibile, un’ amarezza che è forse indignazione, e nello stesso tempo una sottile vena di gaiezza.
Possibile? La fanciulla ardita che, solo due anni fa, lanciava le sue squilanti note, inebriata di sè, esaltata dal suo stesso ardire ch’ era forse eccessivo ma che era magnifico, è ridotta così dal matrimonio, in adorazione umile, in ginocchio davanti all’ uomo che le ha dato il uo nome? Le sue rime di La Voce erano dunque dettate in uno stato di sonnambulismo o di incoscienza, se ella le disprezza, come una cosa non sua? Ed ha diritto un artista, qualunque cosa essa contenga, di rinnegare la propria opera?
No, non ne ha il diritto: è come se la madre rinnegasse la propria creatura quando essa nasce deforme; è come se l’ uomo si liberasse, col solo fatto di non riconoscerle, dalla responsabilità delle proprie azioni.
Un libro corrisponde sempre ad un periodo di vita, triste o sereno, buono o cattivo, che nessuna forza e nessun volontario oblio può cancellare, ed è assai più nobile, io trovo, il gesto di colui che nulla rinnega, nemmeno col rimorso, della sua anima e della sua vita.
Si può rispettare il sentimento di amore e di umiltà che ha suggerito alla poetessa questo passo, non si può non deplorarne la debolezza e la puerilità.
Puerilità, appunto: poichè nessuno del publico si crede in dovere, pel fatto ch’ ella li ha rinnegati, di non giudicare i versi di Luisa Bruschetti. E possiamo dire anzi che li giudica migliori dei suoi più recenti.
In La Voce, giovanissima, ancora fra i banchi della scuola, ella aveva un’ anima canora magnifica di vigore, che più tardi, se si è ingentilita, ha perso però tutta la sua originalità.
Forse il giudizio è severo: ma se ora ella è più buona, allora ella era migliore.
Ed è profondo il rimpianto ch’ io provo per quel mirabile ingegno che l’ amore ha illimpidito così da farne una cosa incolore. Ma l’ amore doveva essere il canto più bello, in lei; doveva tradursi anch’ esso in forza, in verso.
Non a questo, non a questo era nata la creatura d’ orgoglio che or si compiace di umiltà, la creatura di ardire che or si compiace di soavità, la creatura di passione che ora si compiace di candore.
Sinoera? Non so.
Forse è sincera nell’ adorazione dell’ uomo suo, non nelle parole che esprimono questa adorazione.
Ah, quel fluire profondo! Doveva divenir mare, non querulo ruscello!
Peggio, il canto presente, che se il suo arco si fosse spezzato allora per esser troppo teso.
L’ avremmo rimpianta: ora, nel nostro rimpianto, è un poco il compatimento per le cose miseramente finite.
C’ erano cose immense in quel piccolo libro, in cui ogni lirica è canto vero, umano e divino, pieno, possente, travolgente; l’ esaltazione della giovinezza. Ed ora? Ci sono cose assai dolci, ma che ognuno di noi sa dire. E basta?
Dove la felicità immensa ch’ ella prometteva ai fratelli e che doveva esaltare fino al delirio tutte quelle giovinezze che crescevano con lei?
Chiusa nel nido del suo amore ella ne canta la voce, gli occhi, la bontà, la bellezza… E il vasto mondo l’ attendeva!
Meglio la sola prefazione del suo secondo libro di tutte le liriche ivi riunite. La prefazione è passionata, vibrante, sincera, tutto il suo amore immenso vi è racchiuso. Bastava.
E’ solo in virtù del libro rinnegato che il suo nome è qui fra quelli delle giovani trionfatrici; il suo libro giovane, anelante, ansante come in un volo, in cui, al contrario del suo desiderio, la riconosciamo.
Maria Cardini, di Napoli, anima pensosa, si compiace in forme dionisiache, ma è troppo ardente, talvolta, troppo impaziente, dolorante di troppe cose per darci la piena gioia di vivere che le vere anime dionisiache sanno.
Assai più profonda di altre fanciulle che cantano l’ amore, sentiamo che qualche cosa di veramente tormentato la urge al canto; non una vana illusione o una vana delusione.
L’ anima è complessa; intensa gioia, tenace rimpianto; ora desiderio tormentoso di pace, ora oblio quasi sereno; moti di anima resi meravigliosamente, un poco affastellati, ma non mai uggiosi.
Dionisiaco è forse il desiderio di vita, non l’ appagamento di questo desiderio destinato a rimanere vano.
Maria Cardini conosce le lucide follie del dolore che diventa esasperazione, e ce le rende in un crescendo doloroso che diventa urlo e poi si acqueta in una calma anche più dolorosa.
Chi da natura ha avuto una precoce anima che si tormenta è destinata a non mutarla mai.
La pace, la calma, il riposo, il sonno, la morte: vani desideri, sogni irraggiungibili!
Il cuore desidera sino a languire, l’ anima si tende fino a spezzarsi; tutto è convulso in queste anime; divelto, travolto via via da moti rapidissimi; anime che per essere passionate non possono dimenticare passando da un amore all’ altro, da un dolore all’ altro, ma in cui invece tutto si sovrappone, si somma, a far del lieve fardello un immenso peso.
Anime giovanili, quando dunque vi disseterete alla gioia? Dov’ è quella che ci dica finalmente l’ appagamento completo?
Nemmeno Milly Dandolo, giovanissima, ha saputo dirci questo: l’ infantile vena era forse troppo tenue perchè riuscisse a darci altro che uno squisito godimento; la vena infantile era troppo sentimentale perchè altro potesse dirci, nel ritmo leggerissimo, che i pianti di un’ anima e di un cielo primaverile.
Anima sentimentale, certo non temprata abbastanza; certo non assetata d’ altro che di luce e profumo. Triste? No, malinconica, della malinconia che ogni giovinezza conosce almeno un poco, che fa piangere la sera e nelle notti lunari; che fa singhiozzare su musiche tristi; che fa sospirare per scene d’ amore, adorare un nome o un fiore; che dà le grandi delusioni dimenticate all’ indomani che tutti abbiamo chiamato amore, dolore, passione, quando avevamo ancora tanto bisogno di giocare e di ridere.
La poesia di Milly Dandolo è precisamente quella che l’ anima sensibile e solitaria di una diciottenne, rimasta molto bimba, può darci; bimba sensibile a tutto ciò che è armonia, attonita davanti a tutto ciò che é misterioso moto dell’ essere.
L’ ispirazione non è profonda; le basta una nota lievissima a intonare il canto.
La meraviglia di chi non crede che questa poesia malinconica sia di una fanciulla cui tutto si svela promettendo, è la meraviglia di chi più non ricorda ciò che fu la sua adolescenza.
Anche le giovinezze più turbolente hanno conosciuto queste ore morbide e infinitamente dolci; questo morboso desiderio di pianto, questa nostalgia, questo male di un paese sconosciuto e che la vita, più tardi, travolge nell’ oblio.
«Amore e malinconia» hanno un bizzarro dolce-amaro sapore, pronunciate da una bocca ancor quasi infantile o incontrate in un verso di adolescente.
E non è posa–è sensibilità che tutto urta, che tutto ferisce; è battito d’ ala che cerca affannosamente ove posarsi, che non sa se poserà, che si sgomenta di sentirsi sola, e non si accorge che intorno tutti gli adolescenti palpitano così.
L’ adolescenza è schiva e quando canta lo fa illudendosi di placare così la grande sete che la incalza. Più tardi, nell’ appagamento del cuore, nella via ritrovata, forse più aspra, ma non più tortuosa e seducente di mistero, quelli che piansero di malinconia si accorgono quanto fu vana la loro sofferenza: taluni se ne sgomentano (o compiacciono?) come di un doloroso privilegio; altri invece, riconoscendo in tutti gli adolescenti il proprio cuore, comprendono che si trattava di una crisi e, se sono poeti, il loro canto si fa più saldo; il loro dolore, se esiste, diventa canto di vita.
Poichè se è vero che della gioia nasce il dolore, non é meno vero che ogni dolore, anche il più aspro, possa essere gioia domani.
Alda Rizzi può dirlo. E’ straordinaria la sensazione di pace serena che ci viene dal suo libro in cui pure sentiamo una così grande sofferenza e una così vibrante sensibilità.
No, non è solo l’ imitazione qua e là pascoliana che fa del suo canto una così serena opera d’ arte; è l’ anima che l’ amore ha resa profonda e chiaroveggente, che si appaga nel ricordo soavissimo; che non cede all’ onda travolgente del dolore, che dice «aspetta» quando talvolta il desiderio di gioie nuove o di dolcezze lontane la strazia.
Aspetta, ella sembra dire: non urlare, non gridare, non disperare.
Aspetta. Non senti quanto è dolce questa attesa? Non senti che domani sarai felice? Non sai che nella serenità è ogni dolcezza?
Aspetta. Domani verrà! »
Verrà… che cosa? Forse l’ amore, di nuovo; forse la gloria; forse la pace. Non sa dirlo; ma attende con una fede che è tanto più grande quanto più è faticoso lo sforzo per contenerla entro i confini della bontà paziente; con una fede che è tanto più intensa quanto più si fa insistente la nostalgia delle gioie passate.
Nessuna amarezza, nessun pessimismo, ma una veglia sacra come tutte le vigilie.
E nemmeno l’ ottimismo facile delle creature mutevoli; no, la creatura che in questi versi ci si rivela così nobilmente serena, è donna profonda e sa quello che vuole e come questo le costi.
Per lei come per altre, possiamo dire che al suo successo giovò sopratutto la forma insolitamente perfetta, forma in cui non sentiamo assolutamente nessuno sforzo, ma che si adatta perfetta alla sua poesia, mentre in molti è la poesia che si adatta alla forma.
E ancora, come di altre, noi la consideriamo singolarmente interessante quando ci parla di amore. E’ una fanciulla che parla, no, anzi, è la fanciulla che vive, e l’ uomo amato non ci appare come generalmente da ogni poesia di donna, un miracoloso essere leggendario, o un vuoto burattino, ma uomo che ama, che accarezza, che ascolta, che piange accanto a lei, con lei; uomo per cui ella ha sofferto e che ella giudica nel suo male e nel suo bene, nella sua forza e nella sua debolezza, con la chiaroveggente tenerezza che l’ amore oggi conosce.
E la sua poesia ci appare precisamente quale deve e può essere oggi la poesia femminile: sincera e dignitosa: perfetta e spontanea; senza nessuna velatura che aggiunga seduzione o che mitighi le asprezze; poesia matura.
Chi volesse, oggi, cantare senza dare tutto di sè, senza sorvegliarsi affinchè armonia e forma siano perfette e concordi, ignora le esigenze del pubblico che corrispondono sempre ai bisogni del gusto e dello spirito.
E come Ada Negri è la poetessa del suo temperamento, Amalia Guglielminetti della sua vita, Milly Dandolo della sua giovinezza, Alda Rizzi è poetessa del suo, del nostro tempo, in cui temperamento e vita si compenetrano intimamente, in cui tutto è cementato e saldato in una linea originale e pur unica, in cui giovinezza non vuol dire inesperienza o incertezza, ma fioritura magnifica.
Ed ora, finita la troppo affrettata rassegna di queste poetesse nostre, coloro i quali affermano che la donna non può e non sa essere poeta, diranno, a conferma della loro opinione, che non una di queste poetesse ha dato ancora il capolavoro.
E’ vero, la donna ancora non ha dato il capolavoro, la donna poeta, forse, non lo darà mai. Finchè essa farà perno della sua vita, l’ amore, e scopo del suo amore il figlio, la donna, penso, non darà mai l’ opera d’ arte perfetta, essa che fa opera perfetta di vita.
La creatura che ella deve generare e che, se anche non nata, assorbe tutta la somma di tenerezza, di ingegno, di sensibilità che è in lei, è il capolavoro unico che può veramente esaltarla e cui, malgrado errori, o contraddizioni, o negazioni, ella aspira sempre.
Fortunate le donne di non avere ancora un genio nelle loro file, esse che nella maternità e nel canto si sentono pur sempre sorelle; benedetto il capolavoro, quando nasce da madre che ha avuto rivelazione di arte e di poesia; benedetto perchè allora veramente egli racchiuderà nella sua carne e nel suo sangue l’ essenza unica di quella carne e di quel sangue che lo nutrirono del loro ritmo più intenso e più riposto.
FINE.
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