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Doveva la "legge di stabilità della svolta per il lavoro". Ma il testo che verrà oggi votato alla Camera è riuscito addirittura ad aumentare il costo del lavoro nelle imprese che hanno maggiori potenzialità di creare occupazione. Tra i nuovi contributi per la Cig in deroga e l'accelerazione dell' aumento delle aliquote per gli iscritti alla gestione separata Inps, il cuneo fiscale, soprattutto nelle piccole imprese, è destinato ad aumentare ulteriormente.
C'è solo la premessa di alleggerirlo in futuro con i risparmi della spending review. Ma come si può pensare che un governo che ha impiegato7 mesi per avviarla, che ha già lasciato da solo Carlo Cottarelli (mai menzionato nel discorso del "nuovo inizio") a passare in rassegna la spesa e che non riesce neanche a fare quei tagli su cui avrebbe tutto il sostegno dell' opinione pubblica (l' abolizione del finanziamento pubblico ai partiti rischia di essere a saldo zero per il contribuente, come documentato su lavoce.info) riesca davvero a tagliare la spesa pubblica? Tra l' altro il cosiddetto fondo taglia cuneo dovrà prioritariamente finanziare la Cassa Integrazione e i contratti di solidarietà ancora non coperti per il 2014, come ammesso dallo stesso relatore della maggioranza. E servirà eventualmente per ridurre anche le tasse sulle pensioni, quindi le improbabili coperture per abbassare le tasse sul lavoro verrebbero comunque ulteriormente diluite, perché sparse su di una platea molto più ampia dei soli lavoratori.
Quali altri dati devono uscire per convincere il nostro Parlamento che il lavoro è il problema numero uno? Il tasso di disoccupazione è al 12,5 per cento, raddoppiato nel giro di 7 anni, e per più della metà rappresentato da persone che sono senza lavoro da almeno un anno. La disoccupazione giovanile è ormai saldamente al di sopra del 40 per cento. E tra i pochi giovani occupati, quasi il 50 per cento ha un lavoro temporaneo, duale. Le persone in condizione di grave deprivazione materiale, soprattutto a seguito della perdita di un lavoro, sono in Italia raddoppiate nel giro di soli tre anni. Certo questi dati si spiegano con le due gravi recessioni, il bollettino di guerra ieri tracciato dal Centro studi di Confindustria. Ma è proprio partendo dal lavoro che si può cominciare l' opera di ricostruzione. La riforma del lavoro è stata la grande incompiuta del governo Monti. È cruciale anche perché, a differenza di molte altre cose da fare, ha il pregio di conciliare equità e rilancio della nostra economia. Il lavoro rappresenta la strada maestra per ridurre la povertà quando ci sono pochi soldi da spendere. E riducendo le disparità di trattamento fra diverse categorie di lavoratori, ci si può meglio preparare alla ripresa, se mai questa verrà. C' è qualcosa di profondamente sbagliato quando nello stesso settore, magari nella stessa azienda, si licenziano fino al 20-30 per cento di lavoratori duali, mentre altri lavoratori, che hanno lo stesso livello di istruzione, età ed esperienza, ma un contratto a tempo indeterminato, mantengono non solo il loro salario, ma anche tutti i fringe benefits che avevano prima della crisi. Da noi la disoccupazione dal 2007 è raddoppiata, ma i salari dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato, secondo i dati Istat sulle forze lavoro, sono aumentati in entrambe le recessioni (2008-9 e 2011-13) mentre i lavoratori temporanei venivano falcidiati (il loro numero si è ridotto del 12% nella prima recessione e dell' 8% nella seconda). Non ci dovrebbe esser bisogno di strumenti ad hoc perché riduzioni dei salari di molti salvino il posto di lavoro di qualcuno. Bisognerebbe invece facilitare la creazione di nuovo lavoro altrove, dove potrebbe essere maggiormente valorizzato. E oggi il capitale umano (oltre che il credito alle imprese) è sistematicamente concentrato proprio in quelle imprese e settori che hanno più bassa produttività. Secondo le stime di Hassan e Ottaviano, anche solo una distribuzione casuale del lavoro tra imprese, aumenterebbe la produttività del nostro settore manifatturiero del 6 per cento. Infine, facilitare l' ingresso nel mercato del lavoro dalla porta principale fa aumentare la copertura dei nostri ammortizzatori sociali, che oggi danno un reddito solo a un terzo di coloro che perdono l' impiego, perché il rischio di trovarsi in quella condizione è concentrato su chi ha carriere troppo brevi per accedere ai sussidi. Non è vero che oggi non si può fare nulla per il lavoro perché non ci sono soldi. Al contrario, si possono fare tre cose in contemporanea. Primo, cambiare le regole di ingresso per i nuovi assunti con contratti a tempo indeterminato, come da tempo suggerito con il contratto a tutele progressive a tempo indeterminato a tutele progressive senza entrare in inutili dispute ideologiche sull' eliminazione completa dell' articolo 18.
È un' operazione che unifica gradualmente il mercato del lavoro senza intaccare i "diritti acquisiti" di chi ha già un contratto a tempo indeterminato. Secondo, si può introdurre un salario minimo e prevedere un sussidio condizionato all' impiego per chi ha salari appena al di sopra di questo livello minimo, ad esempio garantendo almeno 5 euro all' ora, un modo per favorire occupazione di chi oggi è disoccupato e di contrastare la povertà con bassi costi per lo Stato. Questa operazione sarebbe in parte finanziata dall' emersione di lavoro oggi sommerso. Terzo, si possono ridurre in modo significativo e permanente le tasse che gravano sui contratti a tempo indeterminato, finanziando queste minori entrate con tagli dei trasferimenti alle Ferrovie dello Stato e al sistema delle imprese e, in parte, con riduzioni dei contributi previdenziali che, come già chiarito su queste colonne, si autofinanziano nel sistema contributivo. Un simile pacchetto integrato di riforme e di tagli delle tasse sul lavoro sarebbe accettabile a livello europeo anche se inizialmente fa aumentare il disavanzo perché vuole davvero riformare quello che oggi è il peggiore mercato del lavoro dell'Unione europea.
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