Evidenza del rumore: in un film costruito sul silenzio (degli uomini) il suono è fondamentale; la serie di quattro colpi ritmati della pala sulla copertura di terra della carbonaia - su cui si apre “Le quattro volte” di Michelangelo Frammartino - si mantiene sull'immagine delle montagne calabresi che segue. La mancanza di quel frastuono distraente ch'è costituito dalla parola (distraente perché spinge tutto il resto in secondo piano) isola il suono e ne ripropone a un tempo sia la nuda evidenza sia il significato. Smettere di parlare insegna ad ascoltare?
Quattro episodi, quattro stati dell'esistenza. Un vecchio capraio malato (non dimenticheremo il dettaglio del cane da pastore che torna indietro preoccupato quando il padrone sofferente si siede lungo il tratturo dopo il passaggio del gregge) si cura ingerendo polvere del pavimento della chiesa. Nota che a dargli la polvere, raccolta con un'immagine della Madonna, è la donna che pulisce in chiesa; l'elemento femminile come tramite implica una religiosità ancora più arcaica di quanto già vediamo? Poi il pastore perde la polvere - e muore. Uno stacco ci mostra il parto di una capra: per una morte, c'è una vita – è il flusso continuo dell'esistenza (l'umano, l'animale, il vegetale, il minerale), presente già nel titolo. Passiamo alla vita del capretto, dalla nascita fino a quando, uscito per la prima volta col gregge, si perde. Le inquadrature dal basso degli alberi mossi dal vento potrebbero essere una soggettiva animale – ma anche se no, l'immagine trasmette comunque un senso di arcana meraviglia della grandezza del mondo. La sera, il capretto si addormenta sotto un solenne abete bianco. Ci aspetteremmo a questo punto uno sviluppo drammatico, in negativo (morte del capretto) o in positivo (ritrova il gregge), ma non c'è. L'argomento del film è la totalità, non una storia individuale. Il racconto si sposta - dopo un accenno al passare delle stagioni - all'abete, che viene abbattuto, usato per una festa paesana, quindi segato a pezzi. Con essi si fabbrica il carbone di legna nella carbonaia dell'inizio; il carbone viene consegnato in paese, il fumo di un comignolo si perde sui tetti.
Per la verità alcune dichiarazioni di Frammartino sembrano spingere l'interpretazione in una dimensione misticheggiante, “pitagorica”, alludendo alla reincarnazione. Ma non siamo obbligati a seguirlo: la continuità della vita è già presente nelle immagini senza bisogno di collegamenti ulteriori (tanto più che evidentemente l'albero preesiste al capretto).
Quello di Frammartino è uno sguardo assoluto. Dopo il funerale del pastore, la bara viene inserita in un colombario del cimitero; la mdp coglie la sua chiusura da un punto di vista impossibile, dentro il loculo. Una simile “soggettiva vuota” si ha quando i pezzi dell'albero segato vengono portati via sul carboncino, e poi quando nella sequenza della carbonaia. “Le quattro volte” è affine al documentario ma va al di là del documentario: va più in basso, non in senso estetico ma nel senso di un livello più profondo e primitivo: dà la vera impressione di scavare alle radici dell'esistenza. Frammartino depura l'immediatezza in una solenne essenzialità. C'è qualcosa di arcaico e come di magico, c'è una risonanza, in questi gesti umani – così come nel belato insistente delle capre, ma anche nella dignità silenziosa del legno, nei riflessi argentei del carbone. C'è un significato nelle cose. Quando le lumache scappano dalla pentola in cui le teneva il capraio, questi butta dalla finestra il mattone che non ha tenuto fermo il coperchio: non “vale” (il friulano direbbe: no al è bon). Nota che questo mattone avrà un ruolo del pari disastroso quando sarà utilizzato in seguito, come ferma-ruota del camioncino. In questo film gli oggetti non sono astratti e interscambiabili come nel nostro mondo (dove un marxista potrebbe parlare dell'anonima equivalenza della merce).
La vita stessa sembra mettersi in scena come totalità; di conseguenza “Le quattro volte” è anche un film sui misteriosi nessi causali che intessono l'universo sotto il nome di caso. Ciò gli dà un senso magico – ma un magico radicato nella realtà. Nel bosco, una formica importuna si aggira sul viso del capraio malato. Poco dopo, vediamo perduto in terra il pacchetto della polvere “curativa”, coperto di formiche che addirittura arrivano a sollevarne un angolo. E questo ci ricorda la formica di prima: il concetto del film non è semplicemente di fotografare il reale ma di trasmettere un flusso potente e complessivo che è la vita; e lo fa anche con queste, che si potrebbero chiamare correspondances ma depurate di ogni significato decadente-simbolista. Potrebbe essere definito un documentario, ma in realtà è un'immersione della macchina da presa nella misteriosa dimensione del tutto e della durata.
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