Nell’estate del 2011 l’Ispo rese pubblici i risultati del più icastico e elementare dei suoi sondaggi. Si componeva di due quesiti. Uno, nel quale si domandava: come valuta l’operato del governo finora? Il secondo, invece chiedeva: come valuta l’operato dell’opposizione finora?
Alla prima domanda aveva risposto con una valutazione positiva il 18% degli intervistati contro il 79% dei giudizi negativi. Per la seconda i giudizi positivi erano stati il 13%, quelli negativi l’83%. E poi, un’altra rilevazione, a gennaio 2012, cambiato il governo, convertite le escort in professori, fissava la fiducia nei partiti a 3,8% e quella nel Parlamento all’8,5%, come a dire che meno di un cittadino su dieci “credeva” e si fidava della sua istituzione sovrana. Si, perché incaricati o auto insigniti del compito di costituire il fondamento unico della legittimazione politica, i partiti non erano più riusciti a trattenere i propri mandanti, a mantenere la delega, trasferendo la propria crisi alle stesse istituzioni e alla democrazia.
Non vale nemmeno la pena di chiedersi come mai committenti opachi e media assoggettati non abbiano riproposto gli stessi interrogativi, in presenza di un governo altrettanto odioso, di una opposizione ancora più inesistente e di una stampa ormai invertebrata. Nessuno avrebbe voluto ritrovarsi davanti all’istantanea della distanza ormai incolmabile tra livelli istituzionali e “popolo”, misurare senza mediazioni, la voragine spalancatasi nel cuore del sistema politico italiano, quell’80% almeno di rancorosa insoddisfazione bipartisan.
Non si sa che fine abbia fatto il bipartitismo egemonico vagheggiato da Veltroni: saltate le casseforti dei capitali e delle rendite elettorali e politiche accumulate, non si è assistito al fisiologico travaso di voti da un fronte all’altro, sancendo la marginalizzazione che i partiti, considerati un tempo centrali, stanno subendo, mentre si afferma prepotentemente la potenza magmatica del malessere.
Io temo che saranno delusi quelli che sperano in un elettorato che infine si ribelli ai capricci intemperanti di Grillo per il quale antifascismo, diritti, sono fastidiosi optional che non si addicono a un sistema di corte, chiuso, gretto, annichilito nell’adorazione di un capo assoluto. O quelli che si augurano un affrancamento dalla malcelata ammirazione per quell’altro costume di corte, per quel ripiegamento su una combinazione di ubbidienza, cinismo, venalità, corruzione, imitabile con un certo profitto.
Ieri una frastornata candidata al Senato per il Movimento 5Stelle, Serenella Fucksia, in quote rosa di nome e di fatto, scesa o salita in campo per “fare qualcosa per questo nostro Paese”, in effetti ha “fatto”: in un colpo solo ha tradito la sua appartenenza di genere, ha ostentato l’infedeltà a una legge dello stato, ha tirato un frego sul più oneroso dei diritti, quello che proprio perché pesa di più è ancora più inalienabile: la legge sull’aborto, ha dichiarato, è una sconfitta per le donne. E sempre ieri il suo leader invano vezzeggiato dai media, adulato dai commentatori, scrutato dai politologi con la stessa febbrile ed estatica ammirazione con la quale si erano innamorati di Bossi, delle sue radici antifasciste, del suo radicamento territoriale, della sua vena pop, ha detto no ai veleni mediatici che ha contribuito a alimentare, preferendo opacità, oscurità e mistero, ingredienti suggestivi e di sicura efficacia quando non si ha nulla da dire o niente e il contrario di niente.
Non credo che i loro elettori saranno folgorati e dissuasi. In fondo non lo sono stati nemmeno quelli della Binetti, delle pensose Puppato, convinte che il pluralismo passi dall’accoglienza al movimento per la vita, di chi in questi anni ha alimentato istruzione confessionale e privata, di chi ha tollerato le leggi ad personam sentendosi più “persona “ di altri.
In questa apocalisse civile non solo è andato disperso quel senso di responsabilità che aveva nobilitato i titolari di ruoli e posizioni di comando o aveva imposto loro di mascherare i propri vizi dietro un velo di ipocrisia, ma è evaporato anche nelle decisioni collettive e nelle scelte civiche, riducendo appartenenti a classi e aggregati sociali in nomadi, sradicati, mossi dal rancore, dal risentimento e capaci solo di riconoscersi nella perdita, nella delega in bianco, nel declino dell’uomo pubblico a beneficio di un ego solitario e gregario. Si sa perché piace la stigmatizzazione compulsiva permanente, perché appaga l’esasperazione distruttrice del popolo- giudice, perché consola la tentazione di ridurre la vita democratica all’algida contrapposizione tra un popolo-vittima, virtuoso, e un quadro istituzionale corrotto e ostile. Piace perché è in gran parte legittimato. Ma è ingiusto e ignavo. E ci meritiamo la cancellazione della politica se non ce la riprendiamo.