L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e farne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Così termina Le città invisibili di Calvino. Un’opera che avrò riletto, non so, 30-40 volte (una decina quest’anno). Io ho riportato le ultime parole del libro, ma non posso dire che queste costituiscano il finale. Potremmo permutare le città invisibili e ottenere un qualunque altro finale altrettanto bello (o forse persino migliore). Lo scrittore accusava addirittura i critici della loro scelta di esaltare questo a discapito degli altri.
Ma mi premeva riportare queste parole. Molti al giorno d’oggi si sono arresi, hanno alzato le spalle ed accettato che tanto non cambierà mai niente. Molti han smesso di lottare affinché le cose che non sono inferno abbiamo spazio, dimensione, realtà. E si adattano a vivere in questo mondo cercando di essere il più possibile felici.
Mentre trascrivevo le parole di Calvino mi è poi balzata alla mente una frase che son sicuro di aver letto in un racconto di Borges (ma stasera l’ho cercata a lungo invano), e che diceva più o meno così:
Sii insoddisfatto del mondo e sprecherai la vita, sii felice e perderai l’anima.
Guardatevi attorno, andate a cercare. Quando avete fatto separate il non-inferno dall’inferno.
E allora decidete se tentare di dare spazio al primo o se essere felici nel secondo.