Cari amici, da qualche qualcuno mi chiede come mai io, essendo un precario, sostengo le ragioni della protesta dei ricercatori contro la riforma dell’Università propugnata dalla Gelmini. Ho deciso di rispondere oggi, il primo giorno in cui non sono più ufficialmente professore, non avendo più una cattedra. Gli studenti universitari in particolare fanno fatica a capire: per loro chi insegna in un corso è un professore, e basta. In realtà, la situazione è estremamente più complessa. Scrivo soprattutto per spiegare a loro, i miei lettori più scafati mi perdoneranno se ripeto cose arcinote. Da un punto di vista formale, in Italia i professori — coloro che detengono una cattedra e quindi fanno i corsi, danno esami, e firmano registri e libretti — possono essere associati, ordinari, aggregati, o a contratto.
I professori ordinari sono in cima alla gerarchia, e hanno molto potere, perché possono essere intestatari della maggior parte dei fondi di ricerca pubblici. Hanno in genere più di 50 anni, e sono a fine carriera, vale a dire non sono tenuti a dimostrare a nessuno il loro valore tramite risultati di ricerca (questo non vuol dire che alcuni non la facciano, la ricerca, e magari bene). Sono tenuti a fare una certa quota di didattica frontale. Vanno in pensione tra i 65 e i 72 anni. La riforma Gelmini gli dà maggior potere, perché vincola molte commissioni (dove oggi possono prendere parte professori associati) ad essere formate esclusivamente da ordinari.
I professori associati sono un gradino più sotto, partecipano alla gestione della vita accademica, sono tenuti a fare una certa quota di didattica frontale e sono tenuti a fare ricerca, specialmente se vogliono diventare ordinari.
I professori aggregati sono in realtà ricercatori che fanno didattica frontale da più di tre anni. Lo statuto giuridico dei ricercatori fa sì che essi non siano tenuti a fare didattica frontale, ma solo integrativa (seminari, esercitazioni, applicazioni formative, ecc). Il loro compito principale sarebbe quello di fare ricerca. In realtà è da molti anni che suppliscono alla mancanza di un numero congruo di professori di ruolo coprendo la didattica frontale al punto tale che tengono in piedi diversi corsi di Laurea. I ricercatori sono i più colpiti dalla riforma, perché vengono di fatto eliminati, e sostituiti con i ricercatori a tempo determinato (3 anni, rinnovabili una volta, quindi 3 +3 = 6 anni), terminati i quali bisogna diventare professori associati oppure si è fuori. Si è anche ipotizzato di fare concorsi per l’associazione riservati ai ricercatori a tempo determinato, bloccando le possibilità di carriera degli attuali ricercatori.
I professori a contratto sono professionisti che hanno l’Ateneo come cliente, e vengono pagati per svolgere un determinato corso. In alcuni casi tengono un corso a titolo gratuito (come il sottoscritto, nel caso di Storia dell’Informatica). In inglese si usa un termine tedesco per indicare questa situazione, che non c’è in italiano: Privatdozent.
Cosa succede nella pratica? Poiché i ricercatori suppliscono alla didattica frontale, i precari (dottorandi, borsisti, assegnisti, post-doc…) di solito, invece che occuparsi al 100% alla loro attività dottorale o post-dottorale, suppliscono sulla didattica integrativa. Cosa che io ho fatto per diversi anni nel corso di Epistemologia, Etica e Deontologia dell’Informatica in qualità di “tutor” (termine che in concreto non vuol dire molto). Nulla di male, intendiamoci, a patto che non vada troppo a incidere sul tempo dedicato alla ricerca. A me è andata abbastanza bene, devo dire. Per poter dare esami e firmare i registri spesso i precari vengono nominati cultori della materia, che è un titolo legato alla Facoltà che lo rilascia: quindi non particolarmente spendibile nel curriculum.
I precari a volte non si rendono conto che questa riforma li penalizza: essere ricercatori a tempo determinato non dà nessuna garanzia di avere una possibilità di carriera, anzi molto meno che essere ricercatore oggi (mal che vada, rimani ricercatore). Nessuno infatti garantisce che i concorsi da associato vengano banditi nel momento in cui scadono i 3 o i 6 anni. Il rischio è di essere sbattuti fuori dal mondo accademico, oramai non più giovani, e con difficoltà a reinserirsi sul mercato.
I conti sono presto fatti. Nella migliore delle ipotesi: laurea magistrale a 25 anni, dottorato conseguito a 29 anni, ricerca a tempo determinato rinnovata fino a 35 anni. Questo senza assegni, borse, e quant’altro, come accade di solito. Lo scenario è che i precari di oggi saranno i quarantenni che cercano lavoro domani, con un curriculum di ricerca magari molto buono, ma con un’età che in molti paesi del mondo è considerata avanzata per dei precari. Con buona pace degli ingenui che mi dicono: “perché non vai all’estero?” A parte il fatto che potrebbe non piacermi essere un cervello in fuga, non è facile, se si è considerati dei “vecchi”.
Solo in Italia mi chiamano (a 35 anni) un “giovane ricercatore”, o “una promessa della ricerca”. Ma quale promessa?!? Io, come molti altri coetanei, ho prodotto dei risultati di ricerca, vorrei essere messo in grado di andare avanti sul solco già tracciato. Per l’Unione Europea i giovani sono tali dai 18 ai 25 anni compresi, dopo 26 anni non sei più un giovane, sei un adulto punto e basta. E mi sembra anche logico: si suppone che tu non sia più uno studente, e quindi (se ti interessa la carriera accademica) che sei in grado di produrre risultati in autonomia, magari parziale prima, sempre più indipendente poi.
D’altra parte c’è poco da stupirsi: l’Italia è una gerontocrazia, un governo retto dagli anziani, che bloccano l’avanzata delle generazioni dopo di loro. Come si fa a sentire parlare di futuro da parte di Mr. B (classe 1936)?
In fondo, l’Università — e la riforma — sono uno specchio dell’Italia di oggi. Be’, a me tutto ciò non piace. E quindi aderisco alla protesta, perché se un giorno i miei figli mi chiederanno “tu cos’hai fatto per cercare di evitare lo sfacelo che la tua generazione ci ha dato in eredità?” io potrò rispondere serenamente “tutto ciò che era in mio potere”.