Le rivolte arabe: ripercussioni regionali e politica mondiale

Creato il 21 settembre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

L’articolo seguente è l’editoriale di Tiberio Graziani al secondo numero di “Geopolitica”, intitolato La “Primavera Araba” un anno dopo

I tumulti cominciati in Nord Africa nel dicembre del 2010, poi estesisi lungo lo scorso anno in gran parte del mondo arabo e culminati con l’aggressione militare alla Libia, oltrepassano il contesto regionale e si inquadrano nella strategia statunitense volta al controllo militare, economico e politico non solo del Mediterraneo, ma anche del Medio Oriente e dell’Africa. A più di anno dall’inizio della “Primavera araba” viene proposta una sintetica valutazione del suo impatto nel processo di transizione uni-multipolare.

La “Primavera” araba: un episodio della lotta per il primato mondiale?

A distanza di oltre un anno, molteplici elementi inducono a ritenere che i sommovimenti iniziati in Nord Africa il 17 dicembre del 2010 con il suicidio del giovane tunisino Mohamed Bouazizi, ed in seguito estesisi per tutto il 2011 in gran parte del mondo arabo, travalicano il contesto regionale e sembrano iscriversi nel quadro della strategia statunitense volta al controllo militare, economico e politico non solo del Mediterraneo, ma anche del Medio Oriente e dell’Africa.

La cosiddetta Primavera araba, pur movendo da alcuni fattori endogeni che certamente hanno contribuito ad innescarla1, si situa nel mezzo del dinamico processo di transizione tra il sistema unipolare a guida statunitense e quello multipolare. Questo processo, avviatosi a metà degli anni Novanta con l’emersione di Cina e India quali nuove potenze economiche, ha subìto un’accelerazione ed assunto una più precisa fisionomia geopolitica grazie al riposizionamento della Russia quale attore globale, operato da Putin durante le sue due prime presidenze (2000-2008). L’inaspettato ingresso nell’agone internazionale delle Potenze continentali eurasiatiche, come noto, prese in contropiede gli USA, i quali, per la conquista del primato globale, sia sul piano geostrategico sia su quello dell’acquisizione delle riserve energetiche, avevano già impresso, sin dalla fine del sistema bipolare, un indirizzo accentuatamente militare alla propria prassi geopolitica (geopolitica del caos).

La perdurante dialettica geopolitica tra potenze continentali e marittime si riproponeva dunque con rinnovato vigore all’alba del XXI secolo. Essa avrebbe riprodotto, come abbiamo poi constatato nel corso degli ultimi anni, antichi schemi di confronto militare, politico ed economico in particolari aree del Pianeta. Una di queste aree è proprio il Mediterraneo.

Il bacino mediterraneo e l’ampio spazio centrasiatico costituiscono una lunga e vasta cerniera il cui scardinamento è la precondizione necessaria per qualunque Potenza extracontinentale intenzionata ad assicurarsi il dominio globale. Il confronto per il primato mondiale consiste infatti principalmente proprio nel controllo della massa continentale euro-afro-asiatica. La tensione tra le opposte linee di forza relative, da una parte, al progressivo inserimento degli USA nella massa eurasiatica e, dall’altra, alla emersione e riaffermazione di antiche Potenze continentali, trova nel bacino mediterraneo una delle aree di maggiore criticità. Il sistema occidentale a guida statunitense, privilegiando la militarizzazione delle relazioni internazionali (una particolare reinterpretazione del multilateralismo), ha, se si esclude la prima guerra del Golfo (1990-91), dapprima destrutturato la penisola balcanica, poi, per aprirsi un varco verso il cuore dell’Asia, ha proceduto alla deframmentazione di intere aree strategiche per la coesione e la stabilità dell’intera Eurasia (Afghanistan e Iraq).

Lo sforzo bellico degli USA e dei suoi alleati tuttavia non è riuscito, finora, nel suo intento. Nuove aggregazioni geoeconomiche e geopolitiche, quali quelle costituite dai paesi BRICS o quelle formalizzate dalle intese strategiche tra Iran e Cina, nonché quelle stipulate tra i maggiori Paesi dell’America meridionale e le potenze eurasiatiche, hanno infatti mutato profondamente lo scenario internazionale. Gli USA, bloccati nella loro espansione verso la Russia per via dell’accordo di Pratica di Mare (2002) e, soprattutto, per il fallimento della loro strategia imperniata sulle cosiddette “rivoluzioni colorate”, impantanati nella trappola afgana, hanno rivolto le loro attenzioni all’Africa, in particolare al Nord Africa, e dunque al Mediterraneo. A questo proposito, non è un caso che Washington ed il Pentagono abbiano attivato l’Africa Command e potenziato la base geostrategica di Camp Bondsteel, indispensabile per la proiezione delle forze terrestri ed aeree “occidentali” nella zona compresa tra l’Adriatico e il Caucaso.

Grazie anche al mutato scenario globale, paesi mediterranei come l’Italia e la Turchia, malgrado la loro condizione di membri della NATO, cioè di nazioni strettamente incardinate nel sistema occidentale2, hanno tentato di svincolarsi timidamente dalle indicazioni dettate nell’ambito dell’alleanza egemonica di cui fanno parte. Le “timide” azioni di svincolamento hanno riguardato, in particolare, le relazioni tra la Libia di al-Qaḏḏāfī e l’Italia di Berlusconi, la politica di “buon vicinato” condotta da Ankara verso i Paesi arabi ed il contemporaneo allentamento turco delle relazioni con Israele, l’alleato strategico degli USA nel Vicino e Medio Oriente. Queste azioni costituivano, sul piano strategico, dei validi presupposti per la potenziale saldatura tra i Paesi del Mediterraneo e, in particolare, evidenziavano – a livello globale – la centralità geopolitica dell’area mediterranea ai fini della realizzazione del Nuovo ordine multipolare.

I tentativi di svincolamento summenzionati hanno, ovviamente, introdotto ulteriori elementi di tensione nel bacino mediterraneo, presidiato militarmente da Washington, e, in qualche misura, contribuito alle decisioni “interventiste” di Parigi e Londra nei riguardi della Libia.

L’instabilità mediterranea

L’attuale scenario mediterraneo presenta una fragilità in diversi ambiti, da quello, come abbiamo visto, geostrategico a quello socio-economico e politico. La crisi finanziaria ed economica che ha investito gli USA nel 2007-2008 si è propagata – grazie anche agli “egoismi nazionali” sottostanti le scelte di politica economica dell’asse franco-tedesco (Sarkozy-Merkel) e dei settori più tecnocratici di Bruxelles – in Europa, in particolare nelle aree più deboli del Vecchio Continente. L’attacco all’euro, operato da Wall Street e dalla City con la complicità delle agenzie internazionali di rating, ha di fatto destrutturato le economie nazionali e il tessuto sociale di Grecia, Spagna e Italia. Le tre nazioni mediterranee si trovano ora nella difficile situazione di dover subire i diktat provenienti da istituzioni sopranazionali quali la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale. Tale subordinazione manifesta ulteriormente l’incapacità delle classi dirigenti dei paesi mediterranei sopra citati di individuare percorsi politici alternativi.

La critica situazione in cui versa oggi l’Europa mediterranea si aggiunge, quale elemento calamitoso, alle recenti perturbazioni nordafricane. L’area mediterranea appare pertanto sempre più destabilizzata. In qualche misura sembra realizzarsi una parte importante del progetto del Nuovo Grande Medio Oriente, ideato alcuni anni fa dalle amministrazioni statunitensi.

L’ingombrante peso della politica estera USA negli affari interni dei paesi nordafricani nonché la sua proiezione militare nell’area hanno contribuito a determinare la costituzione di nuove, incerte e fragili leadership, con le quali i governi europei e i maggiori Paesi interessati alla stabilità mediterranea – principalmente la Russia e la Turchia – sono obbligati oggi a confrontarsi.

Russia e Turchia, pur praticando scelte differenti riguardo al dossier Siria, convergono nell’impostazione generale circa i rapporti da intrattenere con i nuovi centri di potere, emersi nel corso del travagliato processo della cosiddetta Primavera araba. Il tentativo di Mosca e di Ankara è palesemente quello di ridurre al minimo le tensioni all’interno della cerniera mediterranea. Russia e Turchia privilegiano, al contrario di Washington e del Pentagono, la via diplomatica. Tale comportamento dovrebbe essere apprezzato dalle Nazioni europee. L’appiglio offerto da Mosca e da Ankara costituisce, infatti, un’occasione (presentatasi, peraltro, anche nelle prime fasi dell’aggressione “occidentale” contro la Libia e percepita positivamente dalla sola Germania) più unica che rara per i Paesi europei, in particolare per quelli mediterranei. I governi di questi Paesi, facendo perno sul rinnovato interesse russo nel Mediterraneo, dovrebbero abbandonare la prassi ipocritamente unitaria finora perseguita che, seppur “concertata” e dettata da Bruxelles, è di fatto subordinata agli interessi statunitensi; dovrebbero, al contrario, adottarne una apertamente bilaterale riguardo alle relazioni con la sponda nordafricana.

Questo nuovo e auspicabile orientamento contribuirebbe al rallentamento del processo di scardinamento della cerniera mediterranea, valorizzerebbe indubbiamente il ruolo di Mosca nelle trattative in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU, farebbe percepire alle popolazioni nordafricane una visione – nonostante la bilateralità delle relazioni – non più “occidentale”, appiattita su Washington, bensì europea (se non proprio euroafricana) della cooperazione tra le due sponde mediterranee.


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