di Mercedes Arriaga Flórez
Università di Siviglia
Giovannino de'Grassi, Concerto di Dame - dal "Taccuino di disegni detto di Giovannino de'Grassi", 1370 circa - Bergamo, Biblioteca Civica A. Mai.
Un erudito marchigiano, Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, poeta e canonico di San Venanzio, priore dell´eremo di San Vicino (oggi San Domenico Loricato), nato a Fabriano nella prima metà del Cinquecento, pubblica, nel 1564, un sonetto che inizia e rima con le stesse parole del sonetto VII del Canzoniere del Petrarca: «La gola, e il sonno e le oziose piume». Petrarca avrebbe così risposto a Ortensia da Guglielmo, conosciuta anche come Ortensia da Fabriano, figlia, secondo la Cronaca Fabrianese, di Francesco da Guglielmo, morta nel 1360.
Andrea Gilio dà inizio, così, ad uno dei gialli più appassionanti della filologia italiana, con intrighi cortigiani, passioni campaniliste, falsi d´autore, e nel tempo, con sempre più sfumature, restando ancora oggi senza risposte, come in tutti i gialli che si rispettino.
Questo il sonetto:
«Io vorrei pur drizzar queste mie piume
colà, signor, dove il desio m’invita,
e dopo morte rimanere in vita,
col chiaro di virtute inclito lume.Ma ‘l volgo inerte che dal rio costume
vinto, ha d’ogni suo ben la via smarrita,
come digna di biasimo ognor m’addita,
ch’ir tenti d’Elicona al sacro fiume,all’ago, al fuso, più che al lauro o al mirto,
come che qui non sia la gloria mia,
vuol ch’abbia sempre questa mente intesa.
Dimmi tu ormai che per più via dritta via
a Parnaso ten vai, nobile spirito,
dovrò dunque lasciar sì degna impresa?»
Si può pensare che il contenuto di questo sonetto ben valga un commento, poiché non si tratta soltanto del conosciuto tema della fama o della dedicazione al mestiere delle lettere o dell´esercizio della poesia, ma anche del tentativo di una rivendicazione femminile che pone, anticipatamente, nella storia letteraria, il problema della donna che scrive, che si sente costretta dalla società che la circonda («il volgo inerte che dal rio costume vinto, ha ogni suo ben la via smarrita») a lasciare la penna agli uomini e a contentarsi dell’ago e del fuso. Tema che, come vedremo, non lascia indifferenti certi critici, i quali non esiteranno a dire che il sonetto è un clamoroso falso.
Andrea Gilio con la pubblicazione di questo sonetto, più che cercare l’eccezionalità e l’esempio isolato della scrittrice -come si sa, una rondine non fa la primavera- ritengo mirasse, all’idea di ricostruire tutta una generazione rappresentativa della cultura fabrianese al femminile. Così nel 1580, in una delle sue opere filologiche più emblematiche e importanti, la Topica Poetica, nella quale si descrivono le diverse parti del discorso e le figure retoriche, include nelle ultime pagine e senza nessun commento, una serie di sonetti di tre autrici marchigiane: quattro sono di Leonora de la Genga, quattro di Ortensia di Guglielmo e due di Livia da Chiavello.
Un secolo più tardi, nel 1689, Giovanni Cinelli[1], completa l’elenco delle autrici marchigiane pubblicando il sonetto «Trunto mio che le falde avvien che hacie» di Elisabetta Trebbiani di Ascoli, amica di Livia da Chiavello.
Ad ingarbugliare ancora di piú il giallo, ci si mette Giacomo Filippo Tomasini[2]. Nel 1635 ripubblica il sonetto «Io vorrei pur levar queste piume mie», attribuendolo a Giustina Levi-Perotti di Sassoferrato (1304-1374). Mentre per Medardo Morici[3] si tratta di un’attribuzione arbitraria e senza fondamento, e ascrive l’opera al cardinale Torcuato Perotti, cameriere segreto del papa Urbano VIII. Perotti avrebbe incluso il sonetto fra le carte del Petrarca redivivus del Tommasini, tenendo ben presente il grande interesse del pontefice per il Petrarca e i petrarchisti. Morici, inoltre, sostiene che Giustina Levi-Perotti non sia mai esistita, e che si tratterebbe di un’invenzione del Cardinale Perotti, per riportare fama letteraria alla propria terra d’origine e alla propria famiglia.
Certo è che nei secoli successivi le petarchiste marchigiane saranno presenti in una serie di antologie, come la Storia del sonetto italiano, nella quale si fa un elenco delle autrici più famose e conosciute del Trecento-Quattrocento: Nina Siciliana, Gaia da Camino, Elenora Della Genga, Livia Chiavello, Selvaggia Vergiolesi, Elisabetta Trebbiani, Ortensia di Guglielmo e Giustina Levi-Perotti. L´anonimo compilatore avverte che i sonetti delle autrici di questo secolo non sono perfetti: «servono a far conoscere la storia dell’arte, e perché ho creduto che si debba saper buon grado alla memoria di quelli, che mossero i primi passi nel cammino della nostra poesia»[4]
Due fatti sembrano rilevanti nella vicenda delle poetesse dei primi secoli, non solo per quanto riguarda le petrarchiste marchigiane, ma un po’ per tutto l’elenco italiano. Il primo è che le poetesse sono un argomento utilizzato, a ragione o a torto, per scopi campanilistici dagli eruditi rinascimentali, e questo è molto significativo sul nuovo valore che le donne assumono nella cultura del loro secolo. Il secondo è determinato dalla confusione creata da molti autori fra donne-personaggio e donne reali. Confusione giustificata, in parte, dalla scarsità di notizie biografiche sulle autrici dei primi secoli, in parte, dal fatto che molti critici, come Edoardo Magliani, mettono sullo stesso piano le opere delle scrittrici con le opere che gli scrittori compongono su figure femminile, contribuendo ad alimentare ancora di più la confusione iniziale. Così Magliani cita L´Amoroso Carroccio di Rambaldo de Vaqueiras, la Battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie di Franco Sacchetti, e il De claris mulieribus di Boccaccio sostenendo che «la comparsa di questo libro del Boccaccio nel Trecento deve riguardarsi, segnatamente dalle nostre donne, come un avvenimento di grande importanza nella storia della loro letteratura[5]». Magliani disegna così, confondendolo, il doppio itinerario, del quale parlerà molto dopo Marina Zancan[6], che vede la donna come oggetto e soggetto di rappresentazione letteraria.
Bisogna dire che a molte di queste presunte poetesse corrispondono solo dei nomi, come quello di Ricciarda Selvaggia o Selvaggia Vergiolesi, Gaia da Camino o Beatriz de Monferrato. Si tratta di donne delle quali ci è arrivata unicamente la fama, che figurano come muse ispiratrici di altri poeti, ma delle quali non si ha alcuna opera. In questo senso, credo, bisogna interpretare la confusione o lo scambio fra Ortensia da Fabriano e Giustina Levi-Perotti. Per gli eruditi che si occupano delle scrittrici di questo periodo è molto più valida l’affermazione di Ferruccio Bertini (anche se riferita agli storici medievali), secondo la quale molti studiosi preferiscono scrivere sulle donne anziché leggere le loro opere[7], e quando le leggono arrivano a conclusioni, come quella del Bogognoni, il quale sostiene che certi sonetti dei primi secoli non possono essere certo attribuiti a delle donne perché i temi che esprimono vanno contro i costumi della loro epoca[8].
Le petrachiste marchigiane dei primi secoli si trovano in quella terra di nessuno, a metà strada fra il mito e la realtà. Nel 1830 Giacinto Carboni Cantalamessa nelle sue Memorie intorno i letterati e gli artisti della città di Ascoli nel Piceno, sosteneva che le donne erano poco adatte agli studi difficili e le meditazioni serie, ma invece potevano coltivare la poesia che era il genere più vicino ai sentimenti, e come prova offriva anche lui un elenco di poetesse illustri a partire da Caterina da Siena e nel quale figuravano anche Ortensia di Guglielmo, Leonora Della Genga, Livia di Chiavello, Giustina Levi-Perotti, Ricciarda de´Selvaggi e Giovanna Bianchetti dei Buonsignori, di Bologna[9].
Elisabetta Trebbiani occupa un posto di rilievo nell’elenco del Cantalamessa, essendo anche lei nata nella città di Ascoli. Il Quadrio[10] dice di lei che ebbe fama inmortale. Il suo unico sonetto conosciuto è stato incluso dal Crescimbeni nella sua Storia Della volgar poesia[11], ed è dedicato a Livia di Chiavello. Carboni raccontò che Elisabetta era una esperta nel maneggio delle armi e che accompagnava il marito, Paolino Grisanti, in abiti da uomo per fargli da guardia del corpo.
Tornando alla questione iniziale del sonetto conteso, ne La Storia del sonetto si sostiene che Ortensia di Guglielmo da Fabriano, vissuta intorno al 1350, fu un’imitatrice del Petrarca. Per altri eruditi, invece, quali Quadrio e Ugo Foscolo, l’autrice è Giustina Levi-Perotti. Anzi è proprio Foscolo a contribuire decisamente alla creazione della personalità o del personaggio di Giustina-Levi Perotti quando la include, assieme ad altre poetesse come Saffo, Vittoria Colonna e Veronica Gambara, nei suoi Vestigi della storia del sonetto[12].
Sembra rilevante notare, inoltre, come Foscolo dedichi le tre uniche copie di quest’opera a tre donne: Quirina Mocenni Magiotti, Matilde Dembowski Viscontini e Susetta Füssli. Foscolo disegna un percorso di scrittura di donne, dall’antichità greca al Rinascimento italiano e, allo stesso tempo, individua un pubblico femminile che potrebbe essere particolarmente interessato ad esso, diventando così un precursore ante litteram di un genere di scrittura destinato a un pubblico anche femminile.
Suscita una certa curiosità anche Carducci, che nell’edizione delle Rime scelte di Cino da Pistoia e di lirici minori del Trecento[13], dopo aver omesso i nomi di Ortensia di Guglielmo, Giustina Levi Perotti, Giovanna Bianchetti e Leonora della Genga, si scusa spiegando che la cortesia del gentiluomo deve cedere dinanzi all’amore per la critica. Carducci considera incerte le loro opere, considerando le fonti antiche che le raccolgono «debole appoggio». Si riferiva alla Topica poetica[14] di Andrea Gilio da Fabriano, e a Le Mescolanze di Egidio Menagio, membro dell’Accademia de la Crusca.
Carducci considera le autrici del Trecento un’invenzione degli eruditi del XVI secolo che «facilmente per antiche spacciassero rime e prose forgiate da loro o loro amici e con quanta franchezza nelle veramente antiche mettesser le mani per rabberciarle al gusto del tempo». Peró, nel giudizio di Carducci sorprende quanto questi eruditi, pur godendo di grande prestigio per tutte le altre questioni da loro trattate in filologia, siano messi in discussione solo sull’argomento delle scrittrici.
Di contro, le petarchiste marchigiane, possono essere considerate una generazione poetica, non solo perché condividono uno stesso spazio geografico, ma anche perché esistono tra loro rapporti di corrispondenza poetica. Eduardo Magliani, attraverso l´analisi di alcuni dei loro sonetti arriva a due conclusioni che possono avviarci a quest’idea della generazione letteraria composta da queste autrici.
- La prima conclusione che Magliani trae è di tipo tematico, e cioè, dice che Eleonora Della Genga, Giustina Levi Perroti e Ortensia da Fabriano, nelle loro poesie descrivono la condizione della donna che vuole anche aspirare alla cultura e alle lettere. Mentre altre autrici come Livia da Chiavello oppure Ortensia da Fabriano, manifestano la volontà di fuggire dalla situazione italiana del momento, rivolgendosi al cielo, o a Dio.
- La seconda conclusione è una classificazione delle autrici del Trecento, in petrarchiste, erudite o religiose, a secondo dei generi letterari che coltivano.
Giovannino de'Grassi, Poetesse - dal "Taccuino di disegni detto di Giovannino de'Grassi", 1370 circa - Bergamo, Biblioteca Civica A. Mai.
Sorprende che critici, come Borgognoni e Morici, che parlano specificamente di un gruppo di poetesse, chiamandole «le petrarchiste marchigiane dei primi secoli», siano anche quelli che, allo stesso tempo, le definiscono delle montature. Insomma, anche se non sono esistite, si trovano ben nominate e identificate.
Se lasciamo la storia filologica e consideriamo i testi in sé di queste poetesse si può riscontrare una grande affinità tematica, come dimostra il sonetto di Leonora de la Genga (1360):
Tacete, o maschi, a dir, che la Natura
a far il maschio solamente intenda,
e per formar la femmina non prenda,
se non contra sua voglia alcuna cura.Qual’ invidia per tal, qual nube oscura
fa, che la mente vostra non comprenda,
com’ella in farle ogni sua forza spenda,
onde la gloria lor la vostra oscura?Sanno le donne maneggiar le spade,
sanno regger gl’Imperi, e sanno ancora
trovar il cammin dritto in Elicona.In ogni cosa il valor vostro cade,
uomini, appresso loro. Uomo non fora
mai per torne di man pregio, o corona.
Questo sonetto, assieme a quello di Giustina Levi Perotti e/o Ortensia da Guglielmo costringono a due cambiamenti nella storia della letteratura italiana:
- La necessità di retrodatare, in Europa, la «querelle delle donne», che fino a quel momento si fa iniziare, nel veneto, con l´opera di Cristine de Pizan, La città delle dame, del 1404. Questo spostamento geografico farebbe delle corti marchigiane e del loro clima di apertura culturale, il luogo dove per la prima volta il tema della dignità della donna appare in letteratura. Inoltre bisogna aggiungere anche il genere poetico come veicolo attraverso il quale questo tema si esprime, non più solo e unicamente in prosa.
- La generazione delle petrarchiste marchigiane ci costringe a rivedere la storia del genere petrarchista, perché sarebbero loro la prima generazione, anteriore a quella delle poetesse petrarchiste del Rinascimento.
Per quanto riguarda invece Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, pur se in bilico fra il merito dell´erudizione e l´accusa di falsario, gli va riconosciuto il merito di essere stato uno dei primi studiosi europei ad essersi reso conto che la cultura di un paese non può e non deve prescindere delle opere create dalle donne.
da “Studi Umanistici Piceni”, 2008, pp. 161-166.
Note
[1]Giovanni Cinelli, Della biblioteca volante di Giovanni Cinelli accademico gelato, e dissonante Scanzia quinta, Parma, Giuseppe Dall’Oglio, & Ippolito Rosati, 1686.
[2]Giacomo Filippo, Tomasini, Petrarca Redivivus, a cura di Massimo Ciavolella e Roberto Fedi, traduzione di Edoardo Bianchini e Tommaso Braccini, Pistoia, Libreria dell’Orso, 2004.
[3] Medardo Morici, “Giustina Levi-Perotti e le Petrarchiste Marchigiane”, in Rassegna Nazionale, Aug., 1899, p.27.
[4] Anonimo, Storia del sonetto italiano corredata di cenni biografici e di note storiche, critiche e filologiche, Prato, Guasti, 1839, p. V.
[5] Eduardo, Magliani, Storia letteraria delle donne italiane, Napoli, Morano, 1885, p. 88.
[6] Marina Zancan, Il doppio itinerario della scrittura. La donna nella tradizione letteraria italiana, Torino, Einaudi, 1998.
[7] Ferruccio Bertini, La mujer medieval, Alianza Editorial, Madrid 1991, p. 11.
[8] Adolfo Borgognoni, “La condanna capitale d´una bella signora”, in Studi d´erudizione e d´arte, II, Bologna, 1877.
[9] Giacinto Cantalamessa Carboni, Memorie intorno i letterati e gli artisti della citta di Ascoli nei Piceno, Ascoli, Tip. di Luigi Cardi, 1830, pp. 82-83.
[10] Quadrio, Della Storia e della Ragione d’ Ogni Poesia, I.-II. Milano, pp. 187-188 y 194-195.
[11] Crescimbeni, Storia Della volgar poesia, vol 3, Venecia 1730, p. 312.
[12] Ugo Foscolo, Vestigi della storia del sonetto italiano dall’anno 1200 al 1800, Terzioli Antonieta (a cura di), Salerno editrice, Roma, 1993 (copia anastatica).
[13] Giosuè Carducci, Rime scelte di Cino da Pistoia e di lirici minori del Trecento, Collez. Diamante Barbera, Firenze, 1862.
[14] Andrea Gilio da Fabriano, Topica poetica di M. Giovanni Andrea Gilio da Fabriano. Nella quale con bell’ordine, si dimostrano le parti principali, che debbono avere tutti quelli, che poetar disegnano. Et oltre di questo, si insegna a conoscere, il genere, i luoghi topici, e con bel modo, ancora le figure, Venezia, Oratio de’ Gobbi, 1580.