In fondo, con chiunque ne parli, si finisce sempre lì: ma lo meritava il Nobel ’sto Mo Yan? Sgombro subito il terreno e rispondo di sì, per un motivo che più semplice non potrebbe essere: Mo Yan ha l’istinto naturale del narratore. Ti basta leggere questo libro, dove le storie sgorgano limpide e spontanee come l’acqua da una fonte, accumulandosi e crescendo fino a generare un’epica, una mitologia – o un’intera letteratura, come direbbe Borges – per capirlo. Sono storie di gente semplice, di contadini travolti dalla Rivoluzione Culturale prima e dall’avvento del capitalismo poi, avventure tragicomiche in cui ogni destino individuale può cambiare improvvisamente da un giorno all’altro, passando dalla gloria alla polvere o viceversa. È un brulicare di convinzioni, testardaggini, espedienti, legami, sentimenti, progressi locali e diktat nazionali che riproduce perfettamente il fermento della vita. Poi c’è il tono, venato di grottesco quantomeno perché il narratore – per la verità, uno dei due narratori –, Ximen Nao, viene sommariamente giustiziato all’inizio del libro e da lì si reincarna – con sua somma rabbia – prima in un asino, poi in un toro, quindi in un maiale, in un cane, in una scimmia e infine nuovamente in un uomo. Ed è con questi occhi che assiste e partecipa alla vita di quelli che un tempo erano sua moglie, le sue concubine, i suoi figli e il suo protetto, oltre a quella dei suoi nipoti: impossibile descrivere la maestria e il gusto comico con cui Mo Yan alterna pensieri e avventure animali a improvvisi lampi d’umanità ogni volta che assume il punto di vista di questi animali-narratori. Aggiungici che in questo modo, senza noia ferire, ti ritrovi apparecchiati cinquant’anni cruciali di storia cinese e capirai perché le 25-30 ore di compagnia che ti garantisce questo libro sono di quelle che ti ricorderai con piacere, in questo 2013.
Le sei reincarnazioni di Ximen Nao, Mo Yan (Einaudi, 736 pp, 22 €)
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