Nel tentativo di restituire al postmoderno almeno una parte del suo valore, oggi screditato con eccessiva baldanza da una pubblicistica superficiale (ved. post precedente), proviamo a descrivere alcune idee di fondo del postmodernismo. Non pretendiamo certo di detenere il senso unico e incontestabile della postmodernità, ma semmai di allargare la riflessione su un periodo storico del pensiero occidentale che viene accusato di cose che non sono vere: il postmoderno viene confuso con un atteggiamento politico infantile, inetto, privo di responsabilità e del tutto compiacente rispetto al "telecirco" dei vari Berlusconi, Sarkò e compagnia. Tutto ciò è ridicolo, sarebbe come dire che la metafisica l'ha inventata la televisione. Ecco alcuni spunti per riflettere. 1. Il postmoderno ha contribuito ad arginare gli effetti di un progresso fine a sé stesso: non è che il postmoderno si sia collocato al di fuori della modernità (se così fosse, sarebbe un pensiero reazionario), ma piuttosto al suo interno come istanza critica e democratica – va sottolineato questo aspetto fin dall'inizio- di un sistema basato sulla supremazia dei pochi che detengono il potere industriale e perciò economicamente dominante. Come tale, il pensiero postmoderno non fomenta l'idea di identità "forte" e dominatrice ma, piuttosto, ha spesso appoggiato le identità “deboli” e le minoranze come, per esempio, le zone diseredate dell'India di cui si è occupata Vandana Shiva, critica non a caso del cogito cartesiano (come anche Gayatri Spivak) e di ciò che rappresenta in termini scientifici e capitalistici. Altri esempi di minoranze attive che trovano riscontro nel pensiero postmoderno sono il femminismo e la lotta per i diritti degli omosessuali, dei transessuali (penso a un'autrice come Judith Butler) e di qualsiasi altra differenza sociale. C'è da riflettere sul fatto che il “realismo” in certe parti del mondo coincide, in sostanza, con lo smantellamento del territorio socioculturale nel nome di forze capitalistiche che hanno tutto da guadagnare dall'elogio della cosiddetta “realtà”. Quest'affermazione, va da sé, è un rovesciamento di quella di M.Ferraris – contenuta nel suo articolo di Repubblica già citato- secondo la quale la “ragione del più forte” sarebbe una caratteristica del postmoderno. E' falso, ma è ciò che occorre, forse, credere per “uscire dalla crisi”: dunque è una specie di teologia mediatica, non realtà. E questo profuma di "cattivo postmoderno". 2 Come scrive bene Gaetano Chiurazzi nel suo Il postmoderno (Mondadori, 2002), utile vademecum in questi tempi di oscurantismo: “Il postmoderno pone il problema dei limiti e delle distorsioni del razionalismo moderno, o meglio della razionalizzazione della società e del mondo introdotta, e poi estremizzata, dal moderno”. Ciò che significa, in poche parole: “burocratizzazione, prevalere della razionalità strumentale su quella rivolta ai valori”. Vi ricorda qualcosa? A me sì, tra le molte cose che mi ricorda c'è anche la riforma Gelmini – l'ultimo (nel senso di più recente) rantolo di un management di bassa lega, solidale fino in fondo con qualsiasi semplificazione “realistica” del sistema dell'istruzione. Meno teste pensanti, meno per tutti. Come oggi sta accadendo in Cina e in India, le due grandi potenze mondiali, dove stanno cancellando gli studi umanistici perché non sono "orientati al progresso" (lo racconta Martha Nussbaum nel suo recente Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, ed. Il Mulino 2010). 3. Per una nuova ecologia mondiale: come ricorda sempre Chiurazzi nel suo saggio, scegliendo come bersaglio polemico gli effetti estremistici della filosofia cartesiana, si è collocato a favore dell'ambiente e dell'Ecosfera. Serge Latouche non è certo un razionalista, e il suo concetto di “decrescita” deve non poco, a mio avviso, sia all'analisi delle situazioni produttive di Foucault che al decostruzionismo di Derrida, pur non essendone una derivazione teorica diretta (un filone parallelo è costituito dal lavoro eterodosso di Slavoj Zizek). Oggi per fortuna alcuni autori italiani stanno lavorando in questa direzione, pur sotto la minaccia di perdere credibilità accademica: un segno che non tutto il postmoderno è morto ma che, semmai, si trasforma (si può leggere sul tema L'avvenire della decostruzione, ed. Melangolo. La bibliografia è comunque fitta). Piccolo corollario: si dimentica spesso che "decostruzione" non è sinonimo di ermeneutica del testo filosofico, ma anche di quello etico-politico. Se studiate con attenzione, le pagine di un Derrida possono essere una bomba rivoluzionaria, se lette con l'ausilio di un libretto accademico come Derrida (ed. Laterza) che viene spacciato come Bibbia agli studenti il risultato è una specie di zuppa storica in cui tutto si equivale. 4. Tolleranza e differenza: identificare la globalizzazione con il postmoderno è una boutade, eppure è questo che ci stanno dando a bere. Nel nome, probabilmente, di alleanze accademiche transnazionali (in ambito anglosassone, in particolar modo, visto che il paladino di questo accecamento è John Searle) si cerca di insabbiare il fatto che il postmoderno, in ambito politico quanto filosofico, è sinonimo di pluralismo, di tolleranza, di un modo di costruire società - non soltanto di criticarne i presupposti- dove i "margini" del sistema non dovrebbero diventare semplici (e incazzate) periferie. Come invece sta accadendo in tutto il mondo occidentale, vittima di una cecità dei politici come degli intellettuali neoliberali - quanto conservatori, ovviamente- che sta portando alla distruzione quel poco di democrazia “reale” che ci rimane. Gli studenti in Gran Bretagna è probabile che non abbiano molta voglia di seguire la "nuova" pseudomodernità che si cela dietro il risibile slogan di "New Realism". Vogliono diritti, libertà, dunque possibilità di scelta. Il realismo non ha mai lasciato scegliere nessuno, di solito, e rischia di diventare il buonsenso che sostituisce la filosofia per ricordarle di tornare a coltivare l'orticello come facevano gli antichi.