La metamorfosi del baco in farfalla costituisce uno dei tòpoi del teatro e naturalmente anche della coreografia, di solito proposta nel suo significato più comune di superamento o raggiungimento di un obiettivo di grado superiore nell’evoluzione di un individuo, di una specie o di un’idea. Nella prima parte dello spettacolo di Cristina Caponera Le teche del conte Hartig la rappresentazione della metamorfosi era ospitata dallo spazio insolito e grezzo del Mulino Costantini di Ferentillo. Sebbene luogo ed atmosfera fossero suggestivi (anche perchè avvolti da una notte stellatissima, rischiarata soltanto dal lume delle candele) questa parte non mi ha colpito quanto la successiva, che si svolgeva invece intorno ad una vecchia chiesa del paesino di Castellone Basso. Il pubblico ha raggiunto la seconda location in una breve passeggiata sotto le stelle, appunto a lume di candela, e devo riconoscere che è stato impossibile non accogliere l’invito iniziale a lasciarsi avvolgere dal luogo, dai suoi profumi e colori -non si poteva infatti rimanere indifferenti a quella frescura, a quel buio fermo e pulito, alla nitidezza della volta. A ridosso del muro della chiesetta, le farfalle hanno danzato la loro nascita e poi i loro ultimi frulli d’ali prima di essere imprigionate nelle teche dal Conte Hartig, un feticista delle farfalle che, come ogni collezionista, le inseguiva per possederle e infine ammirarle chiuse nelle teche. Nell’invenzione assai convincente dei riquadri (teche) sospesi entro i quali danzano le farfalle c’era forse l’intenzione di rappresentarle sotto una luce edonistica, come fossero oggetti del desiderio finalmente conquistati che, anche racchiusi lì dentro, conservano il passato splendore fino a saperlo rievocare in modo dinamico. Eppure, personalmente ne ho colto l’aspetto (per forza presente) drammatico, e quella danza mi pareva più una sequenza di gesti disperati e soffocati di animali imprigionati, che rivelano tutto l’inganno nascosto dietro la smania di possesso propria di un collezionista: ovvero l’impossibilità di possedere degli animali vivi e liberi – l’insensatezza del concetto di possesso riguardo a qualsivoglia oggetto del desiderio.
Questa riflessione sul desiderio e il possesso mi ha accompagnato anche dopo la performance, nel momento in cui quell’incredibile cielo ci ha regalato una stella che precipitava luminosissima verso di noi, per poi spezzarsi in due frammenti ancora più luminosi e infine spegnersi spargendo ovunque scintille: uno spettacolo fuori programma… Inutile dire che ero naturalmente troppo sorpresa e incantata per riuscire ad esprimere in tempo un qualsiasi desiderio (non ne trovavo uno all’altezza dello spettacolo).§