di Michele Marsonet. Dell’attuale presidente americano tutto si può dire tranne che sia silenzioso. Una recente vignetta sui social network lo ritrae a guisa di uomo con un corpo trasparente, attraverso il quale si vede soltanto una serie interminabile di parole. Del resto la sua abilità oratoria è ben nota, e molti sostengono sia stato proprio quello l’elemento decisivo della sua ascesa alla Casa Bianca, assieme all’eccitazione che percorse l’America di fronte alla prospettiva di avere il primo presidente nero della storia degli Stati Uniti.
Tuttavia le virtù oratorie, da sole, non bastano, soprattutto quando non sono abbinate a una visione strategica complessiva e alla capacità di leggere in modo serio la realtà circostante. Se tale abbinamento viene a mancare, è inevitabile che le parole diventino, nel migliore dei casi, semplici chiacchiere, e nel peggiore vere e proprie topiche.
Gli esempi certo non scarseggiano, e inizio con un episodio lontano per finire con uno recentissimo. Alcuni mesi orsono, nel corso dell’ultimo G7, Obama definì la Russia come “una potenza regionale che cerca di minacciare i suoi vicini partendo da una posizione di debolezza, non di forza”, aggiungendo che “noi non abbiamo bisogno di invadere i nostri vicini per avere con loro una relazione forte e cooperativa. Il fatto che la Russia abbia dovuto invadere violando le leggi internazionali dimostra minore influenza, non maggiore influenza”.
Oggetto del discorso era ovviamente l’Ucraina, e qui si tratta di capire chi abbia invaso, dal momento che la resistenza delle regioni totalmente russofone dell’Est appare assai meno sospetta della rivolta di Piazza Maidan la quale – come ora si apprende – fu generosamente foraggiata dalle risorse finanziarie del magnate USA George Soros e incanalata dai servizi segreti americani. Si rammenta ancora con stupore la visita pubblica e “ufficiale” del capo della CIA al nuovo governo di Kiev.
Riconoscendo che la NATO non poteva intervenire direttamente in un Paese che non ne fa parte, Obama diede il via in quell’occasione a un inasprimento della politica delle sanzioni. Impossibile ora valutarne l’efficacia, anche se è nota la grande preoccupazione di molte nazioni dell’Unione Europea.
Ancora più grossa la topica più recente cui prima accennavo, che risale all’inizio di questo mese. In un’intervista Obama ha questa volta definito la Russia come un Paese “che non fa niente” (doesn’t make anything), accusando Putin di essere un leader che causa problemi per guadagnare qualcosa a breve termine, senza capire che tale politica produrrà grossi guai per lui nei tempi lunghi.
Non è facile capire cosa significhi affermare che la “Russia non fa niente”. E’ una potenza intercontinentale dotata di forze armate poderose. Si trova al terzo posto nel mondo per la produzione di petrolio, e al secondo nell’estrazione di gas naturale. Le risorse energetiche che consentono all’Ucraina di sopravvivere sono pressoché totalmente russe, e la Federazione vanta tuttora una struttura industriale e produttiva di prima grandezza.
Certamente la Russia, a differenza della Repubblica Popolare Cinese, non ha in mano gran parte dell’enorme debito pubblico USA, e questo spiega perché l’attuale presidente americano non si sogni nemmeno di fare la voce grossa con i cinesi, sostenendo anzi che le tensioni con il Paese del Dragone possono essere affrontate con tranquillità. Dovrebbe però dirlo a giapponesi, vietnamiti e filippini, che si sentono sempre più minacciati dal potente vicino.
Non si comprende insomma che cosa il presidente americano abbia davvero in mente. Né lo capiscono molte nazioni della UE, con Germania in testa e Italia inclusa. La preoccupazione che si avverte in tante capitali europee dovrebbe rappresentare per Obama un serio segnale d’allarme ma, per ora, non sembra che il messaggio sia stato recepito.
Featured image, the Russian Tsar Ivan the Terrible by Victor Vasnetsov