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Fra tutte le chiacchiere e i dati economici che hanno segnato questa estate assai piovosa, una classifica Eurostat ha attirato -in particolare- la mia attenzione: quella sulle tre velocità del sistema-Italia, fotografata dall’UE (e riportata da “La Repubblica”).
Racconta un’Italia, dove la crisi non ha sostanzialmente intaccato i patrimoni finanziari delle famiglie (scesi da 3771 a 3717 miliardi nel periodo 2008-2013), dove -addirittura- i patrimoni delle imprese finanziarie hanno registrato un boom (da 4759 miliardi a 6060), mentre sono drammaticamente crollati i patrimoni finanziari delle imprese non finanziarie (già bassi, peraltro: da 1700 a 1541 miliardi).
Basti pensare che la Spagna ha un patrimonio finanziario delle imprese largamente superiore al nostro (2100 miliardi), mentre Francia e Germania ci surclassano ampiamente.
Viene il sospetto che l’italiano medio preferisca parcheggiare il proprio patrimonio presso approdi sicuri: sicuramente il fisco pesantissimo e la stretta sul credito bancario non aiutano, anzi, ma quello che Riccardo Illy -nel libro “La rana cinese”- definiva come il modello tutto italiano “famiglia ricca – azienda povera”… pare essere ancora lo schema dominante, nel Belpaese. La globalizzazione prima, e la crisi poi, non ci hanno insegnato proprio nulla.
Finché, pur nelle difficoltà della crisi, non riusciremo a spostare la nostra ricchezza sul cuore pulsante dell’economia, le sue imprese, tornando a scoprire il gusto delle parole “rischio” ed “investimento”, difficilmente potremo tornare ad essere un Paese con un futuro. Per sè stesso e per i propri figli. Non stupiamoci se poi emigrano.
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