Magazine Attualità

Le tre vite di Torino

Creato il 12 febbraio 2014 da Ilnazionale @ilNazionale
piazza castello

Piazza Castello, il cuore della città

12 FEBBRAIO – Avete mai pensato ad una favola in cui un principe, parte di una piccola famiglia reale, caduta improvvisamente in disgrazia, si rimbocca le maniche e diventa operaio industriale, e in seguito smette la tuta da metalmeccanico e si trasforma, memore della sua nobiltà, in un dotto e raffinato professore? Il racconto ipotizzato descrive fuor di metafora la trama storica della città di Torino, che, a pensarci un attimo, ha una vicenda unica e particolare che merita di essere raccontata, compresa e forse, di essere presa ad esempio.

Sono cronaca di questi giorni le resistenze e l’ottuso campanilismo che impediscono l’eliminazione di province ed amministrazioni ridondanti in nome di una miope conservazione di piccoli poteri e privilegi bloccando la realizzazione di una strategia lungimirante; ebbene a Torino verso la fine del XIX secolo, si intuì che l’unico modo per far emergere il regno dal suo provincialismo europeo (!) era di spostare la capitale d’Italia a Roma, raro caso di sapiente autodeterminazione nel trasferimento di sede di capitale di stato.

LA_VENARIA_REALE

La Reggia di Venaria Reale

Tradita dalla dinastia Sabauda e rimasta città importante ma nella sostanza periferica del nuovo Regno d’Italia, la città fece appello alle sue risorse imprenditoriali e tecniche (era pur sempre sede del Politecnico in cui erano confluite le competenze sviluppate per l’industria bellica) per ritagliarsi un nuovo ruolo. E nella prima metà del secolo scorso Torino puntò sull’industria automobilistica ed al suo indotto diventando in seguito uno dei vertici di quel triangolo industriale che con Milano e Genova rappresentava il cuore produttivo dell’Italia.

Tale paradigma di città industriale (Torino=Fiat) si consolidò nel dopoguerra, quando in pieno boom economico le automobili divennero fenomeno di consumo di massa e l’industria meccanica con tutto il suo indotto prosperava per soddisfare una crescente domanda di beni. Sono questi gli anni di Mimì metallurgico ferito nell’onore e di una Torino che attirava migliaia di operai dal sud che ingrossavano le fila della manovalanza necessaria a sostenere lo sviluppo dell’industria.

In quegli anni poco restava dell’antica capitale del piccolo regno transalpino: le residenze reali che, come Venaria, rivaleggiavano per magnificenza con Versailles erano inutilizzate e lasciate in stato di abbandono e progressiva rovina. I grandi boulevard di fine secolo, che, caso raro tra le città italiane, avevano consegnato alla città un rigore urbanistico e che tanto colpivano Italo Calvino, non erano più luogo di passeggio o di fastose parate, ma piuttosto venivano calpestati dalle varie proteste operaie che scaldavano gli autunni della città.

superga

La Basilica di Superga, che domina dall’alto la città

Ma con le prime avvisaglie della crisi petrolifera del 1974, con l’emergere di una nuova coscienza ecologista negli anni ’80 e la nuova concorrenza di manodopera a basso costo dopo la caduta del Muro, a Torino si iniziava a comprendere di nuovo con lungimiranza che la dipendenza dall’industria metalmeccanica sempre più in crisi avrebbe condotto la città ad un inevitabile, nuovo declino. La crisi dell’industria e la decadenza della città diventavano evidenti, tra l’altro, dall’impressionante dinamica demografica che aveva portato la città a scendere sotto la soglia del milione di abitanti (dal 1 milione e 168 mila nel censimento del 1971 al 865 mila in quello del 2001).

In questo contesto, così come Emanuele Luserna di Rorà, il sindaco dell’epoca, aveva chiamato a raccolta le forze intellettuali al momento di reagire al trasferimento della capitale a Roma, anche in questo caso le forze politiche della città si resero protagoniste di una nuova radicale svolta del tessuto economico, produttivo e sociale della città.

L’aspetto più interessante di questa trasformazione è – come nel XIX secolo – la sua pianificazione a tavolino da parte delle forze intellettuali e vive della città. Tale processo è descritto con dettaglio nel libro “La città che non c’era” di Fiorenzo Alfieri, assessore più volte nelle amministrazioni della città, ma anche uomo di cultura che negli anni ha ricoperto vari ruoli nella vita sociale della città.

lingotto

Un’immagine serale del Lingotto

Alla fine degli anni ’90 dunque partì operativamente la messa in opera di un piano strategico che affondava le sue radici dalle riflessioni sulla situazione che la città stava vivendo; furono individuate sei linee strategiche e, per ciascuna di esse, un responsabile di un gruppo di lavoro che doveva porre in essere delle azioni per l’implementazione di tali linee.

Tale piano strategico aveva alla base del suo successo il supporto oltre che delle forze politiche  anche delle forze imprenditoriali e sociali della città che furono coinvolte e chiamate a sottoscrivere il piano. Inoltre particolarmente importante fu la condivisione del lavoro e degli obiettivi con la città, che, tramite un piano comunicativo particolarmente attento, era puntualmente informata del progresso delle azioni.

Infine al gruppo di lavoro furono invitate anche città europee (in particolare Glasgow e Bilbao) che avevano già sperimentato con successo una storia di trasformazione della città postindustriale, e che dunque apportarono la loro esperienza all’attuazione del piano. In particolare deve essere segnalata la collaborazione con Pasqual Margall, il sindaco che aveva trasformato Barcellona in vista dei Giochi Olimpici del 1992, i cui interventi caratterizzano ancora oggi Barcellona così come possiamo ammirarla oggi.

I Giochi Olimpici Invernali del 2006, che erano appena stati assegnati in maniera inaspettata a Torino, sarebbero stati il perno su cui sviluppare il piano strategico, e su cui dare visibilità alla nuova veste della città di Torino, nonché un check point per misurare lo stato di avanzamento del piano a metà strada. A tutti oggi è noto il successo di quell’edizione dei Giochi e della visibilità e notorietà che diede alla città, che fu riscoperta dagli italiani e dagli stranieri.

Così la Torino elegante e vivibile che conosciamo oggi come città di cultura, con il suo festival e museo del cinema, con il magnifico museo egizio, culla del nostro rinascimento, con i suoi monumenti regi ristrutturati e sapientemente integrati nella vita della città, con le sue architetture moderne di Porta Susa e del Lingotto, con i sui caffè e la riscoperta delle tradizioni culinarie, è un esempio di come anche in Italia si può uscire dall’immobilismo reazionario e sostenersi su storia e tradizioni per progettare il futuro piuttosto che anelare con le glorie passate. Perché non bisogna dimenticare che le città non ci sono banalmente tramandate dal passato, ma ci sono affidate per consegnarle intatte e migliorate ai nostri figli.

 Nicola Soldano

Articoli Collegati:

  • Trento: una città che si rivolge al suo fiume?
  • Altre realtà della città di Torino
  • Trieste, la Berlino d’Italia
  • Quando finisce la luna di miele

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :