In una serata romana d’estate (20 luglio 2013) che arriva e rifugge sinistramente fulminea, la scelta di porgere l’orecchio dal socco al coturno deputando ad altri lidi il cicaleggio delle umane vicende contemporanee, decidendo cioè, dagli spalti del Teatro di Ostia Antica, di “vedere“ lo strazio di quattro donne superstiti dopo la guerra di Troia risulta un atto fortemente ideologico di resistenza all’ abituale vuoto drammatico e drammaturgico del panorama capitolino (salvo rarissime eccezioni) a riconferma del funzionamento totale -in ambito performativo- di un genere-la tragedia (soprattutto se greca) e della profezia pasoliniana rimasta inascoltata di recuperare quest’ultimo per ridare anima e corpo alla scena italiana.
Ecce Le Troiane (da Euripide) andato in scena ancora una volta dopo la “prima” del 415 a. C. con Variazioni sul Mito come recita il comunicato stampa in grado di raggiungere un risultato dignitoso e pregevole malgrado la grande assenza di un vero lavoro registico, evidenziantesi fin dall’inizio, colmata tuttavia dalla bravura delle uniche quattro attrici protagoniste: Manuela Mandracchia, Alvia Reale, Sandra Toffolatti e Mariangeles Torres rispettivamente Cassandra, Ecuba, Elena ed Andromaca.
Mancano infatti tutti gli altri personaggi tra cui il coro: la tragedia comunque “esiste” risiedendo allora altrove: nella narrazione delle morti, attraverso l’ira funesta di donne alto lignaggio ben presto ridotte in schiavitù, nell’infanticidio senza sangue velato dal cappotto che avvolge l’erede di Ettore buttato già dalla propria madre da una rupe di sedie incastrate l’una sull’altra, quasi un castello di legno destinato a bruciare come Troia ormai in fiamme, nel dolore universale imperante sulla miriade di sentimenti umani e nel caso specifico femminili portati alla luce, a poco a poco, seguendo i mutamenti dei registri in concomitanza all’evoluzione degli stessi eventi narrati.
Il realismo psicologico fa da calamita in particolar modo quando l’antichissima umanità offerta al pubblico odierno immaginata, ora come allora, risoluta ed eroica, quasi divina, appare misera, problematica ed insicura, fino all’orlo angustiata anche da conflitti interiori restituiti in scena alle cause originarie per esser analizzati.
Simili cum similibus: la massima dell’attrazione tra cavea e pulpitum evidenzia le meritatissime lodi per il tragediografo e dunque per l’impeccabile ingegno drammmaturgico tanto da indurre lo spettatore dell’altro giorno a confondersi decretando la perfetta riuscita dello spettacolo.
Uditi l’ultimo grido lamentoso di Ecuba e la sua prevedibile profezia che sine dubio mai Euripide avrebbe proposto quale finale d’una sua opera*, lo stesso spettatore di cui sopra, può ravvedersi sulle positive impressioni a primo acchito, fermarsi a riflettere e percepire dentro di sé l’assenza degli effetti catartici di aristotelica memoria.
Sia ben chiaro: quanto segue non vuol configurarsi come una mera stroncatura de Le Troiane, al contrario mira a lodare un lavoro attoriale dal sapore di didattica laboratoriale nel più alto senso della definizione individuata da chi scrive, una bravura delle interpreti degne davvero di calcare la scena e una “mite pretesa” (parafrasando al singolare il nome della compagnia costituita dalle quattro attrici protagoniste) di indossare le vesti e supporre i gesti di eroine immortali rese universali da una letteratura purtroppo ineguagliata da secoli (recita il c.s.«[...] Manuela Mandracchia, Alvia Reale, Sandra Toffolatti e Mariangeles Torres hanno deciso di ricavarsi uno spazio e un tempo per lavorare insieme, in completa autonomia, con l’intenzione di trovare testi teatrali che raccontassero un femminile diverso e che affrontassero -al di là del genere le grandi questioni dell’etica, della politica ,della scienza, del lavoro »)
Complice uno scenario così particolare per bellezza ovvero il Teatro di Ostia Antica, le aspettative del pubblico sono tradite a causa del modestissimo sfruttamento della prossemica imputabile alla debole direzione della scena troppo semplice ed essenziale in cui non si raggiunge mai un equilibrio tra l’intenzione e le possibilità vastissime di una sua traduzione: il “vuoto” desta imbarazzo perché quattro corpi di donne con movimenti sempre deliranti fino a sfiorare la monotonia non possono supplire ad una città che a volte “esiste”( vd. il rumore delle navi, a destra, colloca lì il mare; le sedie ed un tavolo divelto disegnano, a sinistra, la reggia di Ecuba ormai ben poco regale; il “muro del pianto” con le fotografie incollate dei Troiani periti delinea lo sfondo) a volte si trasforma e male in un cimitero da cui estrarre a turno ossa umane (palesemente in plastica) per costruire uno scheletro su cui piangere o in un’arena dello scontro fra donne. Queste ultime mai arrivano davvero a toccarsi come la realtà della vita, senza remore, imporrebbe ed adottano una gestualità piuttosto finta, pudica, incongruente nel prendere, scaraventare e non sempre aprire quattro valigie mélo contenenti un’ascia giocattolo e un cappottino nero.
Meglio citare o rievocare con voce e movimenti gli ultimi oggetti di cui sopra e non mostrarli nella loro inadattabilità contestuale fino a sfiorare il ridicolo.
Viene da domandarsi a questo punto, come mai non una scure “vera”, come mai non una coperta “vera”.
Soluzioni vecchie, da teatro sperimentale, già viste ed in evidente contrasto con la materia della tragedia in questione, anche quando essa drammaturgicamente, perdendo tutti gli altri personaggi ed il coro si converte nella “forma- processo” ovvero (poiché non celebrato sul serio), in un agone volto ad eleggere la più abile tra gli arringatori in gonnella.
Innumerevoli allora i punti di contatto e confronto con il teatro del Novecento dell’angustia e dell’angoscia, della chiusura claustrofobica o dell’aula di tribunale da Sartre, a Diego Fabbri, Peter Weiss, Mishima, per ricordare soltanto alcuni che tuttavia non hanno scritto tragedie greche.
Soluzioni nuove, geniali per semplicità e forte impatto quelle recuperanti a loro modo il rapporto con il pubblico mediante un filo, stricto sensu, lungo il quale, per l’intera cavea (dai posti più in alto a quelli vicini al proscenio) corrono, in tempi differenti, due brocche che frantumandosi recano i messaggi per le quattro donne in scena: il rumore dello schianto gela il sangue, così netto, inusuale eppure avvolgente.
Pur di riascoltarlo si desidererebbero forse altri annunci pur funesti per immergersi nella vibrazione di un materiale: il coccio di così poco valore e recante, al tempo stesso, una nostalgia di ere ancestrali.
Per evitare che Le Troiane diventasse una tragedia di servizio, la strada sarebbe potuta essere fortemente “antidemocratica”: alcuna discesa tra il pubblico di Ecuba in un disperato richiamo verso spettatori odierni ormai vili ed anestetizzati di fronte a conflitti saliti tristemente di grado e divenuti mondiali, alcuna rievocazione della bellezza di Elena attraverso un cambio d’abito a vista e sua parziale nudità per rammentare la luttuosa bellezza di lei posta dal mito all’origine della guerra contro Ilio, alcuna elaborazione della vedovanza indossando la giacca del marito per Andromaca, bensì una marcata separazione di casta tra il presente e il passato per rifuggire l’incontro, la relazione e la contaminazione con un’umanità da metter alla porta quale ospite non venerando.
Caduti gli dei sin dai tempi di Euripide, a cui si sono sostituiti i drammaturghi per pensare ciò che deve accadere in scena come nella vita non possono essere accolte mezze misure:o si agisce davvero come ci si muoverebbe nella vita “slacciando”con naturalezza l’enorme muro-tela-valigia posto sul fondo che tanto ricorda per dimensioni e poi tema Guernica di Picasso, avvolto nell’involucro tenuto stretto da corde o si estremizza consciamente la gestica ponendosi di profilo, come le figure dipinte sui vasi greci, disumanizzando ovvero risultando più veri del vero, più umani dell’uomo.
Si legge ancora nel c.s.: «L’attesa per le loro sorti le porterà attraverso la loro memoria a gettare uno sguardo verso il tempo a venire, un tempo privo di senso, distante da ogni legame con il mondo che fino ad allora avevano conosciuto. In quest’attesa ognuna delle quattro cercherà di trovare il modo di sopravvivere, portando via con sé, nella propria valigia ciò che gli consentirà di farlo. Per Cassandra sarà la vendetta, per Andromaca l’amore per il proprio figlio, per Elena la bellezza, e per Ecuba la memoria di ciò che è stato, di quello che ora è, e di cosa sarebbe potuto essere. Questo allestimento delle troiane si concentra su queste quattro figure femminili, quattro donne antiche e ancora capaci di raccontarci i segreti recessi della nostra costituzione profonda. Abbiamo cercato di rendere concreta e vitale la parola di Euripide, abbiamo lasciato che attraversasse i corpi di chi era in scena per lasciarla risuonare nella sua assoluta vibrante, tragica bellezza.»
Se il finale è noto a tutti e privo di speranza (Andromaca sarà schiava di Pirro, il figlio di Achille, Ecuba serva di Ulisse, Cassandra, vergine, preda nel talamo di Agamennone ed Elena moglie riaccolta dal suo sposo Menelao che le risparmierà la vita) soltanto Elena ridotta a mero capro espiatorio, sembra fornire la chiave di lettura per giustificare (oltre che difendersi da) il linciaggio reale e di genere condotto da furiose donne su un’altra donna: «Ho capito, ho capito. Vogliono i colpevoli. Vogliono i colpevoli».
Mai la Tragedia ha voluto trovare “i colpevoli”.
Mariangela Imbrenda
*ECUBA Il terremoto, il terremoto per tutta COROla città si spande come un’onda. ECUBAO mie membra tremule, vacillanti, sostenete i miei passi: mi avvio verso giorni da schiava. CORO Oh, sventurata città. Ma indirizziamo ormai i nostri passi verso le navi degli Achei.