da l'Espresso
Quella grazia è incostituzionale
di Marco TravaglioLa Consulta ha stabilito che la clemenza presidenziale può essere concessa solo per motivi «eccezionali» e «umanitari». Due condizioni (specie la seconda) che non c'erano per l'ufficiale Usa Joseph Romano, condannato per il rapimento di Abu Omar
(12 aprile 2013)
Mi chiama, con l'aria di Pierino che fa la spia, un notissimo costituzionalista stupefatto per la grazia concessa dal presidente Napolitano al colonnello Usa Joseph Romano (condannato nel settembre scorso dalla Cassazione a 7 anni per il sequestro Abu Omar). E mi mette una pulce nell'orecchio: «Si legga la sentenza della Consulta del 3 maggio 2006 sul conflitto Ciampi-Castelli a proposito della grazia a Bompressi, e ne tragga le conseguenze. Io non le dico altro».
La sentenza, firmata da Alfonso Quaranta, contiene spunti interessanti. Soprattutto due aggettivi, ripetuti più volte, sulla grazia presidenziale: «umanitaria» ed «eccezionale» (trattandosi di una deroga al principio di uguaglianza, la prassi vuole che arrivi a debita distanza dalla sentenza, onde evitare che suoni come una sconfessione del lavoro dei giudici). E una chiara distinzione fra atto "politico" e gesto "umanitario".
Non è questione di lana caprina: il Presidente non ha alcun «potere personale», ma esercita ogni funzione «a nome dello Stato», dunque non è responsabile dei propri atti, che necessitano sempre della controfirma di un membro del governo. Nel 2005 il presidente Ciampi chiese al guardasigilli Castelli di istruire la pratica per la grazia a Bompressi (condannato a 22 anni per il delitto Calabresi e ammalatosi dopo aver scontato parte della pena), ma Castelli rifiutò. Allora Ciampi sollevò conflitto di attribuzioni alla Consulta per dirimere una volta per tutte il dilemma del vero titolare del potere di grazia. La Consulta sorprese molti costituzionalisti e gli diede ragione. Ma, per farlo, circoscrisse la grazia nei limiti dettati dallo stesso ricorso di Ciampi: un atto ispirato a una «ratio umanitaria ed equitativa» volto ad «attenuare l'applicazione della legge penale in tutte quelle ipotesi nelle quali essa confligge con il più alto sentimento della giustizia sostanziale». Se - riassumeva la Corte - la grazia «esula da ogni valutazione di "natura politica"», è «naturale» attribuirla «al Capo dello Stato "quale organo rappresentante l'unità nazionale", nonché "garante super partes della Costituzione"».
In definitiva, «il potere di grazia risponde a finalità essenzialmente umanitarie» per «attuare i valori costituzionali... garantendo soprattutto il "senso di umanità", cui devono ispirarsi tutte le pene... non senza trascurare il profilo di "rieducazione" proprio della pena». Il tutto, a patto che la grazia resti «contenuta entro ambiti circoscritti destinati a valorizzare soltanto eccezionali esigenze di natura umanitaria», per non violare «il principio di eguaglianza consacrato nell'art. 3 della Costituzione». Di qui la raccomandazione a non deragliare dalla «funzione di eccezionale strumento destinato a soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria». Meglio che a valutarle sia una figura terza come il Capo dello Stato, anziché un organo politico come il governo, che non deve impicciarsi nelle sentenze dei giudici.
Confrontiamoci ora su questi princìpi inderogabili con la grazia di Napolitano allo spione americano condannato per il sequestro e la deportazione di Abu Omar da Milano ad Aviano a Ramstein e infine al Cairo, dove lo sceicco fu torturato per mesi. Il colonnello Romano è latitante dal 2007, non ha mai fatto un giorno di galera né mai lo farà, perché ben sei ministri della Giustizia italiani, di destra, di sinistra e tecnici, hanno rifiutato di inoltrare i mandati di cattura internazionali per lui e i 27 uomini Cia che parteciparono al rapimento.
Dunque la grazia, oltre a suonare come un'aperta sconfessione della condanna (emessa appena sette mesi fa), non può avere alcuno scopo umanitario per lenire una pena detentiva (inesistente). E infatti il Quirinale, nel suo lungo comunicato, la spiega con la necessità di «ovviare a una situazione di evidente delicatezza con un Paese amico»: gli Stati Uniti. Motivi squisitamente diplomatici, dunque politici: proprio quelli che la Consulta, nella sentenza 2006, esclude a priori nell'attribuire al Capo dello Stato e non al ministro l'esclusiva sul potere di grazia.