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Le urne dei forti

Creato il 25 febbraio 2013 da Albertocapece

urne1Anna Lombroso per il Simplicissimus

C’è chi pensa che il potere sia remoto, invisibile, separato, immateriale eppure influentissimo. C’è chi invece pensa che si incarni in presenze invadenti, che imperversano e occupano le nostre vite in ogni parte, anche le più segrete ed intime.
Non so quale sia la convinzione che muove all’astensione. Forse non saprebbe diagnosticarla nemmeno Tocqueville se negli Stati Uniti tradizionalmente si reca alle urne non più della metà del corpo elettorale. Una tesi gradita dalle superpotenze – e anche da Polanski, che in un suo film fa dire al protagonista, a supponente conferma dell’elevato grado di civilizzazione americana: “noi non andiamo nemmeno a votare” – è che nei paesi acculturati e “informati” prevalga l’idea che il potere, quello vero, risieda altrove, non sia influenzabile dal meccanismo elettorale e non ami esporsi al suffragio dei cittadini preferendo quello del mercato. E che l’ingenua liturgia di deporre la scheda nella “scatola”, nell’illusione che sia un gesto che incide sulla realtà e sullo svolgersi degli eventi, si addica a popoli creduloni e sprovveduti, nella candida persuasione di indirizzare le scelte.

Potremmo quindi essere indotti a credere che la renitenza all’ormai irrilevante rituale dimostri una raggiunta maturità, dando ragione a quelli che in questi anni decantano le virtù del superamento delle ideologie contrapposte, degli schieramenti antagonisti e in lotta rispetto all’assetto sociale ed economico. Non c’è da credere loro, lo dicono per incoraggiarci sui benefici della delega, sull’opportunità che elite, incaricate più che elette, si occupino dei nostri destini altrove, al riparo dal rumoroso svolgersi della nostra quotidianità.

Potremmo anche essere indotti a pensare che così siamo finalmente entrati in una media occidentale, “europea”, che anche l’affezione al cerimoniale partecipativo facesse parte dell’anomalia italiana, come una irriducibile negazione della nostra ininfluenza di cittadini. E non invece che esiste un’anomalia occidentale ed europea che parla di disincanto, di una delusa disaffezione che scaturisce dalla progressiva erosione della sovranità, dal crescere della sfiducia nei confronti del ceto dirigente, dalla perdita del senso e della percezione dell’interesse generale messo in ombra da personalismi., insomma da un’eclissi della democrazia, voluta proprio da quel potere, remoto e invadente che sia. E che l’indirizzo impresso da Berlusconi prima e da Monti poi, riflette in forma caricaturale le tendenze in atto nel contesto occidentale, riproducendo personalismo, leaderismo, autoritarismo del mercato, privatizzazione anche delle istituzioni.

E siccome nelle democrazie le elezioni rimangono un’espressione di fiducia più che l’adesione a misure e politiche specifiche, non può stupire l’esibizione esemplare della rottura di quel sodalizio tra cittadini e rappresentanti, mentre invece riaffiora periodicamente l’affermarsi di forme diverse di partecipazione non convenzionale, spesso individualizzate e “creative”, che coinvolgono stili di vita e di consumo, forme di governance e negoziato di ambito territoriale o movimenti di rivendicazione capaci di mobilitare ampie componenti della società, che trovano formidabili ripetitori nella rete.

Non stupirebbe quindi che un popolo che combina accidia con stanchezza volesse esimersi da un atto che si presenta come un gioco, le cui regole sono state concordemente truccate e nel quale le candidature vengono promosse con procedure più arbitrarie dell’estrazione a sorte. Stupisce di più che ci vada, a votare, che per motivi sconosciuti e imperscrutabili provi ancora un senso di appartenenza e di riconoscimento tenaci in un gesto che altri hanno voluto ridurre a formalità.
Non so se questo dia qualche speranza o se rappresenti invece la simbolica apoteosi dell’affidamento a una delega. Non so se sia l’auspicio o la rinuncia alla politica. So che comunque non basta a farci cittadini.


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