Zdzisław Beksiński (1929 - 2005) è stato un grafico e pittore polacco.
Se dobbiamo prestare fede alla sua biografia, nel 1970 la sua auto fu travolta da un treno, l'artista riemerse dal coma dopo circa tre settimane e annunciò ai suoi familiari di...
...aver visto l'inferno.
Sì, ci sono confessioni peggiori, tipo quella di essere un trafficante di droga, ne convengo. Una rivelazione didascalica, che in un'epoca così anti-romantica come la nostra sembra quasi scontata.
Forse, questo nostro scetticismo è causato dal nostro stesso linguaggio, da quelle figure retoriche così abusate da una stampa ogni giorno più misera.
Perché, per Zdzisław Beksiński l'inferno esisteva davvero. Come può esistere un luogo che abbiamo vissuto, percepito, assaporato, del quale ci è rimasto nelle narici il tanfo.
Ed è quell'inferno che ha sempre ritratto, nelle sue tavole, nelle sue fotografie.
Per meglio dire, fu costretto a ritrarlo, per non impazzire.
Una conseguenza anticlimatica, esaustiva, per quanto si storca il naso di fronte a tali riduzioni sentimentali dell'ambito artistico.
Sia come sia, impossibile non restare affascinati dal sublime in essere nelle sue tavole.
Il sublime è ciò che ci sconvolge, ci atterrisce e ci seduce allo stesso tempo. Il sublime travalica la paura e l'orrore, il piacere, li fonde assieme, stabilisce nuovi confini in attesa di essere varcati.
Se così fosse l'inferno, così come Beksiński lo vedeva, tutto quello che il nostro inconscio collettivo ha generato, chiamandolo col nome di religione, avrebbe un senso. Per quanto spaventoso.Si evince una distruzione dell'io, dell'identità dei dannati. L'inferno di Zdzisław Beksiński riecheggia di umanità distrutta, richiama elementi architettonici noti, città devastate, in fiamme, ma anche luoghi impossibili, tipici di un'intelligenza altra, ed è in queste ultime tavole, a mio avviso, che si cela il vero inferno.
Perché un volto fasciato, che cola sangue, che s'aggira senza meta nell'annientamento e nel dolore è tutto sommato comprensibile, come gli altri zannuti, simbolo forse d'atavica inedia, visi famelici, non meno sofferenti di chi ha subito ferite fisiche.
Ammiriamo i crocifissi smunti, affacciati su distese di tombe o di fedeli che hanno smarrito non solo la fede, ma la propria anima, forse anche la speranza.
Coppie che s'abbracciano mummificate, forse colte in punto di morte e così pietrificate per l'eternità.
Un pifferaio infernale raffigurato nell'atto di suonare il suo strumento, con le dita che si muovono talmente veloci da frammentarsi in centinaia di copie.
E infine, l'ultima, terribile visione di questa breve rassegna:
questa distesa di picchi rocciosi sui quali sono accesi dei fuochi, attorno a cui piccole, rattrappite figure si tengono per mano, per sfuggire a un freddo atroce.
Qui sotto, nel particolare, c'è il falò più vicino. Si può notare lo sguardo di terrore assoluto della figura che si volta a guardare lo spettatore, quasi che stesse guardando se stesso.
Alcuni fuochi sono già spenti. I picchi sono troppo distanti per tentare anche solo di comunicare.
Un panorama di solitaria dannazione, senza nome, come tutte le tavole di Zdzisław Beksiński.
In fondo, l'inferno ha sempre lo stesso nome, per quanto vasto e sconosciuto possa essere.