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Le voci di dentro

Da Bibolotty
Le voci di dentro
Il Teatro può essere come uno splendido concerto di Jazz: equilibrio e forma.
Il parallelismo mi sorge spontaneo già all’apertura del sipario di “Le voci di dentro” nella versione televisiva messa in scena da Eduardo nel 1978 che, protagonista nei panni di Alberto Saporito, assieme al figlio Luca, suo fratello Carlo, e un cast da trattenere il respiro, muove i fili dei suoi personaggi da manuale.
Pupella Maggio -nella foto- musicale e drammatica al punto giusto, Marina Confalone dalle controscene significanti ed equilibrate, Ugo D’Alessio da applauso a scena aperta nel secondo atto, nel ruolo centrale seppure apparentemente defilato di zì Nicola, lo zio dei due protagonisti Saporito, che comunica solo attraverso sputi e spari di petardi perché un giorno ha smesso di parlare, visto che il mondo non era più in grado di ascoltare.
Siamo nel 1948 quando, come dice Pupella, nessuno credeva che gli avanzi fossero così necessari, quando mangiare due uova la mattina era un privilegio e avere un’opportunità di sopravvivere pure.
La trama è semplice, ridotta a una questione di quartiere anzi, di condominio, perché nei più grandi capolavori, la trama non è che un pretesto per raccontarci qualcosa di più intimo e segreto che, in questo caso, è l’incomunicabilità e l’ipocrisia, e i conti che, di tanto in tanto, ognuno di noi dovrebbe fare con la propria coscienza e i propri morti, che ci parlano, sempre.
Eduardo ci racconta del sogno che si confonde con la realtà, che è talvolta più reale e vero della vita vissuta.
Il sipario si apre con la canonica carrellata sulle facce dei personaggi, che già così, da fermi, come in un “tableaut vivant” si presentano per come sono, chiacchieroni e subdoli.
Il primo atto è l’intro che ognuno fa del proprio mondo segreto e, proprio come nel jazz , raccontano la vicenda, il fatto attorno al quale sono chiamati a svelarsi.
Qui, i “soli” strumentali saranno eseguiti nel secondo atto, a casa di Alberto Saporito, quando in confessione davanti a un tavolo, ognuno racconterà la propria versione nella scenografia di Bruno Garofalo piena zeppa di sedie, tappeti e pupi, oggetti che servivano un tempo per allestire feste di paese e che oggi, come racconterà Carlo Saporito interpretato dal figlio Luca, grazie ad appalti di favore e bustarelle sono gestiti dalle solite persone.
All’inizio della commedia Alberto Saporito, è già stato in questura per raccontare del fattaccio, ossia che i suoi vicini di casa, i Cimmaruta, famiglia più che benestante, avrebbero fatto fuori un suo caro amico, Aniello Amitrano, Franco Angrsiano, attore anche di Leone, Scola e Wertmuller.
Una volta rimasto solo in casa Cimmaruta assieme al portiere, Luigi Uzzo, cercherà inutilmente le prove dell’omicidio trovando solo il dubbio di essersi sognato tutto.
Stretto dal senso di colpa e impaurito per averli denunciati si chiuderà in casa dove, uno alla volta a cominciare della Maggio, ogni membro della famiglia sotto accusa andrà a gettare calunnie e sospetti sull’altro.
È vero, il mondo ha smesso di ascoltare e forse non l’ha mai fatto ed è per questo che Eduardo, se di difficile messa in scena –troppo legato ai suoi indimenticabili tempi recitativi e alla sua personalità-, andrebbe riguardato e riletto.
Oggi la televisione e il cinema hanno imposto ritmi dove i silenzi sono banditi, dove le controscene si riducono a una sequenza di gesti confusi e inutili, che nulla hanno a che fare con il pensiero che fluisce e porta l’attore a parlare e a muoversi consapevolmente.
La prima controscena è di Marina Confalone, da sempre attrice giovane della Compagnia e che, nel primo atto, partendo dalla cucina, lungo in cui da cameriera è relegata, arriva a rubare la scena e a raccontare il proprio sogno, un sogno metafisico, assurdo e comico che parla però dell’inadeguatezza che sente al cospetto dell’umanità.
Un altro che non userà la parola per definire il proprio ruolo è proprio zì Nicola- Ugo D’Alessio che dal piccolo soppalco dove vive assieme ai suoi petardi, scenderà a piccoli e incerti passi da vecchio solo per versarsi un bicchiere di vino per risalire su da dove era venuto. Possiamo dire che in teatro la parola è tutto? Si può misurare un attore dal numero di battute? O anche qui, come nella musica, si tratta di silenzi necessari? Di pause che dicono e attori che recitano anche di schiena?
Ovvio che nel mondo dei “tronisti” tutto ciò non ha più molta importanza e che io scrivo solo per mantenere in forma le dita.
Ma tornado a faccende più edificanti c’è il lungo primo piano della Maggio, quello del secondo atto, quando Rosa racconta dei propri dolori e dubbi sulla buona fede del nipote e della cognata, non piange, o meglio non ha bisogno di lacrime di scena per esprimere il dramma: Pupella ha la parola, ha gli occhi, ha l’intensità dello sguardo, la mobilità di espressione e un largo fazzoletto che muove sapientemente sulla faccia.
L’attore di Eduardo non ha necessità di millantare dolore o rabbia o di avere un tappeto sonoro per creare il giusto pathos, o luci. A lui basta il racconto, basta soffermarsi sul senso di ogni singola parola, niente di più.
I ruoli si ribaltano, i cattivi diventano buoni e i colpevoli innocenti: dipende dalle voci di dentro che, nonostante noi parlano, e dalla nostra coscienza che, di tanto in tanto, ci chiama a deporre come unici testimoni di una vita onesta, oppure no.


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