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Legge elettorale dalle quote alle liste rosa

Creato il 13 marzo 2012 da Ifioribludizazie

IL 28 luglio 2012 entra in vigore la Legge Golfo-Mosca. Essa renderà obbligatorie le quote di genere nei Consigli di Amministrazione e nei Collegi sindacali delle società quotate. Un mancato adeguamento cagionerebbe una sanzione progressiva: diffida iniziale, corposa ammenda compresa tra i 100 mila e un milione di euro e, infine, decadenza del consiglio stesso. Un’iniziativa rilevante se si considera la defezione al principio dell’autoregolamentazione “rosa” in ambito UE, oggetto di richiamo da parte dall’attuale Commissaria europea alla giustizia Viviane Reding. Attestata intorno al 13,7%, la Reding ha reso pubblica la limitata quota di presenza femminile nei CdA che, in Italia, è addirittura salda al 6,9%. L’appello lanciato da Bruxelles volto all’autoregolamentazione si prefiggeva di ottenere un livellamento della presenza di genere nei Consigli, prospettandone un aumento del 30% entro il 2015 e del 40% nel 2020. Al fallimento dell’autodisciplina, Italia, Francia e Spagna sono corse ai ripari introducendo leggi ad hoc sulle quote rosa sebbene, nel Belpaese, escamotage per raggirare la norma sembra siano già oggetto di attenta meditazione. Un primo furbesco aggiustamento potrebbe essere rappresentato dalla riduzione del numero dei consiglieri, così da sforbiciare la già residuale quota di partecipazione femminile oppure, altro ritocco, restringere la durata del consiglio da tre a un anno. Nulla cambierebbe, insomma. Le quote rosa rappresentano, perciò, un meccanismo contraddittorio. Anche la Commissaria europea ha affermato che, di questo passo, solo tra quarant’anni si raggiungerà una perequazione tra i generi. Per ora, in Italia, si assiste a una parità miscelata da avanzi del maschile, nomi di donne – per lo più surrogati – proposti da uomini nei meandri di leggi pro forma, mai o limitatamente applicate ai casi concreti. La questione di fondo non risiede tanto nel rispetto o meno delle quote rosa ma nella mancanza di un effettivo esercizio di potere politico conferito alle donne. Da tempo si è superata la concezione insita nell’esercizio del potere dettato dalle fattezze del corpo, dalla rappresentazione del matrimonio come mezzo di eredità di cognome e vantaggio, dallo status di mamma come strumento di ricatto economico-morale attraverso i figli. Molte donne hanno investito unicamente nella propria istruzione, prestato attenzione al miglioramento delle proprie competenze superando l’eredità culturale del passato che determinava privilegi mediante il cognome, vuoi del padre o del marito, o secondo l’imprimatur della nomina di partito. Imbalsamare l’Italia sotto questo profilo, significa congelare una cultura paternalistica e fallocentrica. Paradossale poi che il “fattore D” venga avanzato da una triade Pd -Udc -Pdl squisitamente maschile, che lancia appelli proponendo quote rosa nelle leggi elettorali e negli statuti dei singoli partiti politici, sulla scia del positivo caso belga. Le quote non sciolgono i nodi inerenti le problematiche in tema di pari opportunità, anzi, in questo momento, potrebbero addirittura essere strumentalizzate dagli uomini della politica e da coalizioni stagnanti. La ventata di novità “rosa” potrebbe celare intenti finali diversi riducendo le elette – con la stessa strategia adoperata sinora – a fantocci di rappresentanza politica di linee e indirizzi programmatici maschili. Ecco perché, a scapito delle quote rosa, credo sia necessario democratizzare la legge elettorale prescrivendo che ogni organizzazione politica, obbligatoriamente, indichi una lista di candidate femminili speculare a quella maschile. Solo in questo modo, la scelta di voto di una donna potrebbe ricadere sull’alternativa di una candidata. Se l’universo rosa risulta più istruito di quello maschile e – come dimostra un dossier-studio di due docenti bocconiane relativo a 8.100 comuni italiani – il solo utilizzo delle quote nelle liste per le elezioni comunali ha generato un aumento della qualità degli eletti, riesce difficile immaginare il risultato elettorale derivante da uno scontro maschile-femminile ad armi pari, ovvero mediante la candidatura di uno stesso numero di designati distinto per lista di genere.

articolo pubblicatomi su il riformista e presente nella rassegna stampa della Corte Costituzionale del 13.03.2012


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