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Legge sull’immigrazione: l’Italia a confronto con l’Australia

Creato il 19 febbraio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Legge sull’immigrazione: l’Italia a confronto con l’Australia

Il nostro è un paese dal quale molti vorrebbero scappare – e in tanti lo stanno facendo – ma spesso ci si dimentica che l’Italia è allo stesso tempo anche ambita meta di immigrazione. In ritardo come spesso accade, l’Italia ha iniziato a regolamentare il fenomeno dell’immigrazione solo a metà degli anni ’80, progredendo lentamente sul fronte dei diritti civili degli immigrati e non riuscendo mai a tramutare in qualcosa di costruttivo il costante flusso di persone in cerca di lavoro e prosperità. Mentre nel Bel Paese ogni nuovo governo
metteva mano, ideologicamente, alle leggi sull’immigrazione, dall’altro lato del globo, in Australia per essere precisi, accadeva qualcosa di non molto diverso.

L’Australia, snobbata dal contesto internazionale fino a due decadi fa, è riuscita col tempo a ritagliarsi una posizione di grande prosperità economica, associata alla fama di grande rispetto per i diritti della persona e dell’ambiente. Se poi si considera la sua posizione geografica, incastonata nel sud-est asiatico, non è difficile immaginare quale sia stata – e sia ogni giorno sempre di più – la pressione demografica che subisce. La questione è di grande attualità: l’alternarsi dei governi ripropone a fasi alterne l’applicazione della Pacific Solution, pratica che consiste nel suddividere le ondate migratorie tra i diversi Stati-arcipelago che incoronano le coste settentrionali australiane. Gli immigrati in stato di clandestinità vengono trattenuti in strutture temporanee per essere poi rimpatriati in un secondo momento. La Pacific Solution aiuta le economie traballanti di questi piccoli paesi, ma ha spesso incontrato forti critiche in ambito internazionale per i problemi di salute e sovraffollamento, comprese quelle di Amnesty International e dell’UNHCR, l’Alta
Commissione delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

L’Australia è stata nel passato uno dei paesi più razzisti del secondo dopoguerra, un paese dove la White Australia Policy (la politica per l’Australia bianca) arrivava addirittura ad inficiare i rapporti commerciali con il paesi vicini. Eppure, oggi, nonostante il percorso travagliato quanto quello percorso dall’Italia, i due paesi non potrebbero avere approcci più diversi. Entrambi i paesi adottano leggi sull’immigrazione piuttosto stringenti; al giorno d’oggi infatti non è facile trasferirsi in nessuno dei due paesi se non si risponde a determinati requisiti. Ma come sempre accade, è il modo in cui i princìpi vengono attuati che li contraddistingue.

L’Italia, sotto forte pressione grazie alle porte aperte dal Trattato di Schengen, si è dotata negli ultimi anni di un insieme di leggi, il Testo Unico sull’Immigrazione, che rende molto difficile la permanenza sul suolo italiano, a cominciare dal famoso reato di clandestinità. La legge, molto controversa, è stata indebolita da numerose sentenze di giudici di pace e dalla Corte di Giustizia Europea, che l’ha bocciata con una sentenza del 2011. In sostanza, per entrare in Italia da extracomunitario (parola che con gli anni si è tramutata in insulto) bisogna avere un permesso di soggiorno, rilasciato se si è in possesso di un lavoro regolare, a meno di avere un permesso speciale come quello per il richiedente asilo. Chi viola la legge è soggetto ad espulsione coatta, mentre chi non è in possesso di documenti di identità viene inserito in un centro di permanenza temporanea, dove spesso di temporaneo c’è ben poco, al pari delle condizioni di permanenza, incivili e illegali.

Con il senno del poi ci si sta rendendo conto che, con la crisi economica come aggravante, le condizioni imposte all’immigrazione legale risultano proibitive, con la conseguenza di un aumento di quella illegale. Quello che risulta chiaro è che l’Italia non ha i mezzi per mettere in atto efficacemente la legge sull’immigrazione, problema che paradossalmente ha portato un maggior numero di immigrati clandestini nel paese, senza favorirlo sotto alcun punto di vista, specie quello economico. Agli antipodi, tornando in Australia, la legge sull’immigrazione è ancora più ferrea, ma più elastica per alcuni aspetti e, in ultima analisi, più produttiva per il sistema paese.

I cittadini di alcuni paesi, come l’Italia per esempio, possono avvalersi di una Working Holiday Visa, un visto per lavoratori sotto i trent’anni della durata di un anno, rinnovabile per un altro anno nel caso di lavoro in fattorie dove si producano frutta o ortaggi d’importanza per il commercio australiano. Altri paesi, con rapporti diplomatici meno stretti dei nostri, hanno a disposizione unicamente la Student Visa, un visto studente con il quale si può lavorare fino a un massimo di 20 ore settimanali e si è obbligati a pagare circa 1000$ al mese in istituti educativi riconosciuti dal governo. Superati i trent’anni, per stabilirsi in terra
australiana è necessario rinnovare ogni anno il visto studentesco, o trovare una sponsorizzazione da parte di un’azienda volenterosa, o rispettare i canoni della Skill Visa (un visto dove il candidato incontra le particolari richieste lavorative del mercato in un dato momento), o introdurre in un istituto bancario australiano la somma minima di 500.000$ da investire.

La differenza sta nell’approccio: entrambi i testi sull’immigrazione sono diventati noti per il poco spazio lasciato all’immigrazione legale e permanente, ma la distinzione sta nella scarsa applicazione e nel risibile beneficio che ne trae lo Stato, nel caso dell’Italia, mentre l’applicazione rigorosa e studiata per favorire l’economia, il sistema educativo e la multiculturalità del paese sono evidenti nel caso dell’Australia. Quest’ultima è riuscita, nel corso degli anni, a trasformare i flussi migratori, strettamente controllati, in una risorsa per l’economia, la diversità culturale e la meritocrazia del paese, mentre in Italia lo stesso tentativo è frustrato dalla mancanza di una linea comune fra i diversi governi, incapaci di trarre vantaggio da flussi di pari importanza. Forse, a questo punto, non sarebbe così indegno se i nostri legislatori aprissero l’atlante geografico e prendessero spunto da esempi e best practices di provata efficacia, anche se di origini lontane.


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